Una vita da esclusi

di Panebianco Fabrizio

Arrivo a Parigi il 7 gennaio intorno alle 11.00 di mattina e riparto il 9 gennaio verso le 19.00. Arrivo in ufficio mentre viene sterminata la redazione del giornale Charlie Hebdo, mi dirigo verso l’aeroporto sulla via del ritorno mentre, a pochi chilometri, un blitz uccide gli assaltatori. Per un caso non passo a Porte de Vincennes, di fronte al supermercato dove un altro terrorista fa irruzione, dove solitamente cambio tram. Sono gli eventi che si incrociano con la vita quotidiana. Non farò una cronaca di quanto avvenuto, non racconterò nemmeno nel dettaglio le sensazioni di quei giorni vissuti tra elicotteri, sirene, posti di blocco e, sembra paradossale, tanta normalità. Vorrei solo descrivere qualche immagine di un anno e mezzo passato a Parigi con la mia famiglia per cercare di raccontare alcuni frammenti che possono aiutare a capire alcune dinamiche di cui tanto si scrive in questo periodo.

Libération. Il giorno 15 gennaio Libération esce con una copertina per molti versi di forte impatto. Una prima pagina piena di bestemmie e di insulti a credenti (equamente distribuiti tra le varie religioni). Una copertina provocatoria ma che, paradossalmente, marca una fortissima differenza rispetto al dibattito che gli avvenimenti di Parigi hanno suscitato, per esempio in Italia. Nonostante la presenza di partiti come il Front National, che chiedono pena di morte, sospensione degli accordi di Schengen e ronde nelle banlieue, i francesi sono riusciti a spostare il dibattito sul cuore del problema della libertà di espressione e dei suoi limiti. Sono due gli elementi che fanno riflettere. Innanzitutto la grande Marcia repubblicana. Non una bandiera di partito, non uno slogan anti immigrazione, non un urlo fuori posto. Non ha marciato la nazione o la patria, ma la Repubblica. Nonostante qualche polemica, nessuno ha chiesto le diàmissioni del governo o del presidente della repubblica. Ci sono stati, nei giorni successivi agli attentati, degli episodi contro i musulmani (pochi), ma il dibattito non è stato solo un J’accuse verso la religione islamica. Si è tramutato invece in un dibattito interno sulla libertà di informazione, di critica, di vilipendio, ecc. La copertina di Libération, nella sua forza, è un segno distintivo di questo dibattito. Il secondo elemento è però costituito da una serie di episodi meno positivi: una marcia repubblicana praticamente monoetnica insieme alla difficoltà di molti insegnanti delle banlieue a far rispettare il momento di silenzio in ricordo dei caduti: troppi episodi di distinguo da parte di ragazzini che, rivendicando la loro differenza rispetto alla maggioranza francese, si distinguevano dal grido unanime di «Je suis Charlie». E qui, forte, il richiamo a un paese in cui il modello di integrazione sta mostrando le corde.

Najah. È stata per circa un anno la tata della mia bimba. Najah, tunisina, è stata un punto di riferimento importante e dolce per la nostra bimba. Abitava a poche centinaia di metri da casa nostra, al confine tra la città di Parigi e la prima banlieue, in un quartiere di case popolari abitato prevalentemente da nordafricani o persone provenienti dalla penisola araba. Ogni mattina una processione di genitori di origine europea varca il confine del quartiere per portare i propri figli dalle tate. Come tante altre tate anche Najah ha dei figli nati in Francia, ma sposati con persone di origine tunisina il cui matrimonio è stato celebrato in Tunisia.

«Cosa vi ha spinto a venire in Francia?». I primi mesi questa era una domanda che ci siamo sentiti rivolgere quotidianamente. Bastava aprire bocca, e quindi rendere evidente il nostro essere stranieri, che fioccavano le domande sul perché del nostro essere in Francia. Leàrisposte variavano dal «ma guardate che anche qui non c’è lavoro» al più diretto «certo che voi italiani siete proprio ovunque: sulle strade, sui marciapiedi, al supermercato». Frasi per noi inaspettate, ma che marcano il crescente disagio dei francesi comuni nei confronti di chi si trasferisce in Francia.

Saint-Denis. Il sabato pomeriggio è un buon momento per andare a visitare la meravigliosa abbazia gotica di SaintDenis. L’impatto però, se non si è preparati, è inaspettato. L’abbazia sorge infatti nei pressi di un quartiere di edilizia popolare in stile sovietico, abbastanza disumano, oramai abitato esclusivamente da cittadini di origine non europea. Sul sagrato del comune si avvicendano coppie di sposi che festeggiano il matrimonio francese ma con tradizioni turche, algerine, ecc. Una diversità enormemente interessante, la cui problematicità risiede nell’essere ghettizzata, in un quartiere in cui la povertà è visibile e contrasta con la cura di Parigi che si trova a pochi minuti. Non piccoli quartieri di immigrazione ma integrati nel tessuto urbano, bensì enormi cittadine ghettizzate in cui vivere e sentirsi ai margini.

La Sinagoga dietro casa

Dietro casa nostra c’è una delle tante sinagoghe di Parigi. Nell’ultimo anno, a seguito del crescente antisemitismo presente in Francia, comparivano regolarmente camionette della polizia a tutelare i fedeli. Sono migliaia gli ebrei che, a fronte di un clima di intimidazione crescente, hannoàdeciso di lasciare la Francia negli ultimi anni.

Quanto ho scritto sopra riflette un paese che fatica a rimanere coeso di fronte a una crisi economica forte. Intere generazioni, figli e nipoti di immigrati, sono nei fatti ancora esclusi. Esclusi da un sistema scolastico enormemente classista. Esclusi da un mercato immobiliare che li relega nelle periferie. Su questa base il movimento nazionalista Front National ha buon gioco a difendersi dicendo, con le parole di Marine Le Pen «Cosa ho da offrire ai poveri del pianeta che vengono qui? Una vita da esclusi in periferia?». Dall’altra parte le politiche sociali risultano inefficaci. Per il momento ciò che aiuta a mantenere relativamente calma la situazione è lo stato sociale anche se, a un’analisi attenta, risulta meno esteso ed equo di quanto possa sembrare seguendo gli stereotipi. Negli ultimi anni il debito pubblico francese è cresciuto enormemente, raggiungendo quasi il 100% del PIL, proprio perché ormai lo Stato fatica a trovare le risorse per finanziare il sistema. A breve il governo potrebbe essere costretto a tagliare alcuni benefici e la situazione potrebbe diventare socialmente insostenibile. Chiaramente il disagio sociale, essendo evidente in segmenti della popolazione immigrata (di prima, seconda o terza generazione), può essere una delle componenti che determinano il rischio che alcune persone, isolandosi dalla comunità di cui fanno parte, intraprendano sentieri di radicalizzazione. L’assolutizzazione di questo elemento rappresenta il difetto di analisi sia dei conservatori sia dei progressisti. Da una parte, infatti, dando maggiore peso alla componente etnica e religiosa, si vuole imputare quanto accaduto all’essere immigrati, o figli di immigrati, o appartenenti a un credo specifico. Dall’altra parte, con altrettantaàsemplificazione, si imputa al contesto sociale e alla povertààuna scelta di radicalizzazione. Le analisi comparse in questoàmese sono classificabili in una delle due categorie e in
entrambi i casi i soggetti diventano vittima dei contestiàsociali di cui fanno parte. Purtroppo il dibattito diventaàpresto ideologico, aiutando il reciproco rinforzarsi delleàconvinzioni nei due fronti e impedendo così una riflessioneàpiù approfondita.