Per capire dove andare, devi sapere dove sei

di Meconcelli Maria Grazia Realdi Gioanni

«Seguì la via che doveva seguire, con passo un po’
indolente e irregolare, fischiettando e guardando
lontano, la testa reclinata su una spalla, e se sbagliò
strada, ciò accade perché per certuni non esiste la
strada giusta. A chi gli domandava che cosa pensasse
di fare nel mondo, dava risposte vaghe, perché soleva
dire (e lo aveva già scritto) che portava in sé la
possibilità di mille forme di esistenza, insieme con la
segreta consapevolezza che, in fondo, si trattava di
altrettante impossibilità».
[Thomas Mann, Tonio Kröger]

Il counselling come narrazione di sé: spunti da un colloquio tra counsellor

Vorrei partire da qui. Non so capire quale idea, quale intuizione abbiano i ragazzi e le ragazze del futuro. Mi pare un elemento del paesaggio, qualcosa a cui pensano perché a un certo punto qualcuno dice loro di pensarci. Nel frattempo, sembra un aspetto marginale: si sa che c’è, ma non ci si fa troppo caso. Forse perché vivono con intensità il presente oppure perché la questione del “cosa farai dopo” è imbottita dell’ansia dei genitori – o degli adulti in genere. Che ne pensi?

La maggior parte dei ragazzi che vengono al colloquio sono motivati e si sono, in qualche modo, “preparati”: sono informati nel dettaglio su diversi corsi di laurea, conoscono le differenze tra i diversi atenei, aggiornati più di me. La loro indagine è orientata all’esterno, quasi mai all’interno di loro stessi. È un po’ come se si preparassero a essere delle entità richieste dal mercato. Però sotto serpeggia l’inquietudine, più o meno consapevole, ma spesso espressa dal fatto che portano due possibili percorsi, scusandosi (!!!) del fatto che siano magari lontanissimi l’uno dall’altro…
Ti ritrovi in queste considerazioni?

Sì, mi ritrovo. Nei primi anni di consulenza, diciamo intorno al 2005, mi costringevo a chiarire di non poter dare informazioni tecniche e in effetti una primissima parte del colloquio era da me dedicata al senso di un orientamento “personale”, proprio nella direzione da te indicata, quella dell’interno.
Con il tempo, questa parte è stata da me avvertita troppo “didattica” e quindi ho scelto di intervenire solo di fronte alle domande specifiche su dove si facesse cosa (esiste biologia marina a Bologna?). Successivamente, questo tipo di domande si è assottigliato, a eccezione di alcuni casi di ragazze e ragazzi decisamente “sperduti”, per i quali cioè non v’era né direzione esteriore, né interiore, ma una sorta di caos calmo. Pensandoci, mi pare evidente come negli ultimi dieci anni si siano diffuse, e in modalità sempre più “social”, le strategie informative degli atenei, che in molti casi fanno proprio marketing. Così, allo stesso tempo, moltissimi progetti scolastici vertono sulla pura informazione.
Quanto, in questi nostri ragazzi e ragazze, c’è l’idea di un programma? Quanto di un progetto?

Nella presentazione del progetto degli incontri metto subito in chiaro il fatto che i colloqui non sono una forma di consulenza in senso stretto ma che al contrario i ragazzi devono arrivare, diciamo così, preparati, cioè devono aver preso visione di ciò che le università propongono riguardo quelli che pensano essere i loro interessi, dopo aver escluso a grandi linee gli ambiti che non ritengono adatti. Insomma, anche quelli che vagano nella più totale incertezza devono prendersi la responsabilità di fare qualche ricerca.

È vero: il momento dell’esclusione è uno dei motori del lavoro. Alcuni si rendono conto di averlo avviato inconsciamente, altri lo vivono con la sensazione di aver individuato almeno un punto fermo. Mi pare interessante il fatto che creare un vuoto, anche nell’ansia, sia un’operazione feconda.

E tuttavia non devono arrivare, o ritornare, con la sensazione di avere un vuoto che qualcun altro deve riempire. Per cominciare a lavorare bisogna mettere qualcosa sulla bilancia decisionale. Del resto gli indirizzi di studio sono moltissimi e i vari atenei li coniugano in modo diverso, ognuno privilegiando un qualche aspetto. Per questo ogni proposta che possa fare il counsellor, qualora anche abbia presenti tutte le possibilità, è sempre una strada che dipende dal suo discernimento e che segue una sua interpretazione della situazione. Il punto non è che sia più o meno azzeccata, ma che non è una conquista consapevole della persona. A mio avviso, ciò su cui si deve lavorare è la narrazione dei dubbi, delle incertezze, delle paure che la scelta comporta.

E come accade?

Cercando di cogliere le parole calde, quelle che rivelano un’opportunità di riflessione, per rimandarle allo studente, affinché le chiarisca a sé stesso e a noi.

Il colloquio stesso si dipana come esperienza di un progetto: non sono qui a porre domande chiare e ricevere risposte definitive. Sono qui con un’intuizione iniziale, un bisogno, e poi inizio a camminare, accompagnato in luoghi spesso non riconoscibili, ma che grazie all’alleanza con il counsellor diventano riconosciuti. Sulla via ci sono segnali – le parole, la loro risonanza. Allo stesso modo, penso, avviare un percorso di studi può essere percepito non come un programma a tappe, ma come un progetto, di cui conosco solo in parte l’andamento, ma che può essere modificato, integrato, riscoperto. Certo, darsi degli obiettivi a medio termine è importante, ma altrettanto lo è allenarsi a sentire se, nel complesso, il percorso rende sensata la mia esistenza.

Maria Grazia Meconcelli e Giovanni Realdi

counsellor in approccio
centrato sulla persona

insegnanti al Liceo “G. Galilei”
di Caselle di Selvazzano (PD)