Personalismo e liberalismo: una incompiuta conciliazione

di Tonini Giorgio

I cattolici e la politica nel pensiero di Emmanuel Mounier

Sessant’anni fa, nel 1950, a soli 45 anni, moriva Emmanuel Mounier, uno dei più affascinanti e influenti maestri del pensiero e dell’impegno politico che abbia prodotto il cattolicesimo francese ed europeo del Novecento.

Dieci anni fa, in occasione del cinquantenario della prematura scomparsa del fondatore di «Esprit», uno dei più autorevoli collaboratori della rivista, Paul RicÅ“ur, nell’ambito di un convegno organizzato a Parigi dall’Unesco, teneva una relazione sulla grandezza e i limiti dell’insegnamento mounieriano, che è stata appena ripubblicata in italiano dalla rivista «Mondoperaio».

Della grandezza di Mounier non vale la pena tornare a dire: il suo personalismo comunitario è stato, al tempo stesso, una filosofia dell’esistenza, una spiritualità della storia e un manifesto di impegno politico, alla difficile ricerca di quella sinistra non comunista che ha attraversato tra mille travagli l’intero arco del secolo breve.

Proprio il carattere aperto, esistenziale più che sistematico, del manifesto mounieriano lo ha reso punto di riferimento dell’elaborazione e della sperimentazione politica, cattolica e non, cristiana e non, ben oltre il breve arco della sua esistenza, nei più diversi contesti nazionali: dall’Italia segnata, nel consenso e nel dissenso, dalla presenza della Democrazia cristiana, alla Polonia dei movimenti intellettuali cattolici di Mazowiecky che solo alla fine del secolo riuscirono a saldarsi con la forza operaia di Solidarnosc, passando per la Spagna e il Portogallo della resistenza ai fascismi, fino ovviamente alla Francia, sia gollista che socialista.

Più stimolante (e attuale) rileggere la riflessione di RicÅ“ur sui limiti dell’insegnamento di Mounier, che si presenta da subito come pensiero «rivoluzionario», in quanto «anti-borghese» e in definitiva, secondo RicÅ“ur, «anti-liberale». Certo, la rivoluzione personalista e comunitaria di Mounier è alternativa sia a quella fascista che a quella comunista: ma nella pars costruens, non altrettanto in quella destruens, che è per l’appunto la critica radicale («catastrofista» la definisce RicÅ“ur) alla società borghese e liberale.

Ma l’anti-liberalismo del pensiero di Mounier, sempre secondo RicÅ“ur, finisce per incidere negativamente sulla forza propositiva della proposta personalista. E infatti, «il personalismo di quest’epoca (RicÅ“ur si riferisce in particolare agli anni Trenta) è migliore nella resistenza spirituale alle rivoluzioni menzognere che non nell’impegno e nella controproposta». Non a caso, la «terza via» personalista tra fascismo e comunismo resta una grande suggestione spirituale e culturale, ma priva di concreti sbocchi politici.

Ugualmente contraddittorio il breve, secondo dopoguerra mounieriano: a quell’epoca, osserva RicÅ“ur, «non avevamo ancora letto e meditato Tocqueville». «Vista oggi – conclude RicÅ“ur – è stata largamente partecipata l’illusione che l’alternativa fosse, o fosse solo, tra capitalismo e comunismo, secondo una lettura economicistica, e non, secondo una lettura propriamente politica e istituzionale, fra liberalismo politico e dittatura dello Stato-partito. Ci abbiamo messo decenni a distinguere la seconda alternativa dalla prima».

I limiti del mounierismo, sostiene RicÅ“ur, hanno pesato nella sinistra cristiana non tanto in termini di subalternità al comunismo quanto nei termini di un’avversione al riformismo che ha connotato in modo costosamente negativo la stagione della contestazione successiva al ’68. «La fiammata utopistica del ’68», dice RicÅ“ur, ha enfatizzato in modo esasperato la dialettica riforma-rivoluzione (svillaneggiando il riformismo come cascame liberal-borghese, se non peggio) «e ha contribuito troppo a lungo a mascherare la posta più significativa, quella della tensione libertà-uguaglianza».

Una tensione che non può che sciogliersi, dice RicÅ“ur, nella direzione liberal-progressista indicata da Rawls, «che dice che le libertà formali non rappresentano un’alternativa alla riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali, ma sono invece una condizione preliminare alla loro risoluzione democratica».

Al di là del giudizio su Mounier, che proprio la vicinanza può aver reso più severo del giusto, l’impietosa ricostruzione da parte di RicÅ“ur dei limiti culturali della sinistra, cristiana e non solo, merita di essere riletta e rimeditata. Nel secondo dopoguerra sono stati infatti proprio i partiti democratici cristiani a coniugare in modo allora efficace, sia pure inevitabilmente tra luci e ombre, la radicalità dell’ispirazione cristiana con la pratica riformista; e la tensione verso l’uguaglianza e la giustizia sociale con la difesa delle libertà formali, contro tutte le suggestioni totalitarie. Ma la stagione democristiana si è esaurita in quasi tutta Europa con gli anni Ottanta, quando il fianco moderato dei sistemi politici europei è stato conquistato da formazioni e soprattutto culture politiche di impronta più neo-conservatrice che moderato-riformista, secondo una crisi speculare a quella della socialdemocrazia.

Oggi il rischio è quello di una polarizzazione delle posizioni politiche di ispirazione cristiana tra due opposte, ma in effetti speculari, forme di «individualismo illiberale», come paventava, in una sempre attualissima omelia di Sant’Ambrogio del 1997, il Cardinale Martini: «Cadute le grandi ideologie – diceva l’allora arcivescovo di Milano – i diversi filoni si stanno come implicitamente accordando sull’esaltazione delle ragioni dell’individuo e sulla difesa degli interessi di gruppo. Le differenze tra le grandi visioni della vita, e le conseguenti tendenze della politica, consistono oggi, tutt’al più, nel considerare l’individuo o quale soggetto del libero e non sindacabile esercizio del potere economico oppure nel considerarlo – sia pure nel quadro di una generica solidarietà sociale – quale soggetto di libero e non sindacabile espletamento di comportamenti etici».

I cattolici rischiano di polarizzarsi sulla base di questa angusta alternativa tra liberisti conservatori e progressisti libertini. In entrambi i casi, la radice del male sembra potersi individuare, come suggeriva RicÅ“ur, in una incompiuta conciliazione tra personalismo e liberalismo. A questa nuova mediazione vale dunque la pena lavorare. Su entrambi i versanti dello schieramento politico. Certamente su quello di centrosinistra, che potrà ambire a conquistare la maggioranza dei consensi, e quindi la legittimazione a governare, solo se le culture che lo attraversano sapranno impastarsi con il riformismo liberale.

A sessant’anni dalla sua scomparsa, Emmanuel Mounier continua insomma a interrogarci: gli stessi limiti della sua ricerca, prematuramente interrotta, ci aiutano a capire dove continuare a cercare.

Giorgio Tonini, senatore del Partito Democratico