Un altro mondo è possibile

di Stoppiglia Giuseppe

Resistere alla guerra

«Il tempo è troppo lento per chi aspetta,
troppo rapido per chi ha paura,
troppo lungo per chi soffre,
troppo breve per chi gioisce.
Ma per chi ama non c’è tempo».
[H. Von Dyke]

«Eppure
di là di questa
ringhiera
qualcuno chiama
ancora».
[David M. Turoldo]

Come un’ombra inquietante

Tutti i giorni, quando posso, vado a salutare il fiume Brenta. È vicino alla mia casa. Quando lo osservo, avverto come un’ombra. Una specie di sospetto corrompe la gioia, la letizia che provavo da bambino: l’incanto di fronte a qualcosa d’imperioso. Un’acqua ambigua, che s’increspa e in quel moto, segno della vita, si nasconde un’ombra di morte: sono le sostanze tossiche delle fabbriche.
La stessa prospettiva sul paesaggio si è come complicata e imbruttita. Le molte case hanno dequalificato l’immagine e le suggestioni della natura. L’interno, il lato più particolare e segreto delle mie predilezioni è stato alterato: una violenza è stata fatta, non solo al paesaggio, ma anche alla natura. Svilupparsi ed arricchire le nostre possibilità è senz’altro una cosa bella, ma spesso, unita alla cupidigia, si trasforma in prevaricazione. Il risultato è l’urlo della natura.

Il ruolo della tecnologia

In questo, un ruolo chiave lo svolge la tecnologia, della quale, se da un lato possiamo impropriamente inorgoglirci, dall’altro può instillare in noi la presunzione di essere detentori di poteri che non abbiamo. L’alterigia e la prepotenza tecnologica stridono con le leggi naturali, guastano perfino quelle piccole cose di cui possiamo ancora godere, come la semplice emozione di vedere scorrere un fiume.
L’orgoglio e l’aberrazione di un presunto potere sono il segno di una violenza che disturba e dalla quale è difficile difendersi. Vedo una notte da attraversare, da bucare. Una notte buia, volgare, atroce… e la speranza è messa a rischio. Una primavera, un cambiamento possono nascere solo da un’ispirazione interiore. È certamente doveroso impostare dei programmi di tutela ambientale, ma per renderli efficaci occorre un convincimento profondo. Si deve sentire, desiderare, vivere un’armonia universale, un’espressione di vita, di potenza, di bellezza. Il creato dà un senso forte di trascendenza.

Una possibile alternativa

Non si tratta di obbedire a un principio un po’ astratto, come quello di sostenibilità, ma accompagnarlo con convinzioni profonde e semplici, di attese e vocazioni che ci sono nelle persone, ma che sono state represse e che purtroppo continuano ad esserlo per la prepotenza finanziaria ed economica della nostra società.
Il paesaggio attuale sembra brullo, eppure continuano a scorrere rivoli d’acqua pura. Credo sia possibile uscire da questa oscurità; una luce, un fuoco proviene dai giovani, dai Sem Terra, dalla fierezza e dal vigore di popoli esiliati e sottomessi. Talvolta dal male nasce un fiore che è il bene. L’incognita è il periodo d’incubazione. Dove c’è la cenere, c’è anche il fuoco.
Non c’è una verità definitiva, che sieda su se stessa. È qualcosa che va ricercato sempre. È movimento. L’anima dell’essere si propone come raggiungimento e aspirazione.

Tempi di paura

Il mondo vive in uno stato di terrore e il terrore si maschera: dice di essere opera di Saddam Hussein, un attore stanco di lavorare tanto come nemico o di Osama Bin Laden, terrorista di professione.
Il vero autore del panico planetario si chiama mercato, che non ha niente a che vedere con il luogo del quartiere o della città dove uno va a comperare frutta e verdura. È un onnipotente terrorista senza faccia, che sta dovunque, come Dio e crede di essere, come Dio, eterno.
I suoi numerosi interpreti annunciano: «Il mercato è nervoso» e avvertono: «Non bisogna irritare il mercato». La sua rigogliosa lista di crimini lo rende temibile. Ha passato la sua vita rubando cibo, uccidendo posti di lavoro, sequestrando paesi, fabbricando guerre. Per vendere le sue guerre, il mercato semina paura.
Quando il mercato dà ordini, la luce rossa dell’allarme si accende, trasformando tutti i sospetti in evidenza. Le guerre preventive uccidono con i dubbi, non con le prove. Adesso tocca all’Iraq, prima all’Afghanistan. Così la guerra infinita continua, avvolta nella grande menzogna.
L’Iraq possiede la seconda riserva mondiale di petrolio, che è esattamente quello di cui il mercato ha bisogno per assicurare combustibile allo spreco della società del consumo.

Libertà e monopolio

Le potenze mondiali monopolizzano, per diritto naturale, le armi di distruzione di massa. Un pugno di paesi monopolizza gli arsenali biologici. Vent’anni fa circa, gli Stati Uniti permisero a Saddam Hussein, quando era beniamino dell’Occidente, di lanciare bombe epidemiche contro i kurdi che avevano una cattiva fama. Queste armi batteriologiche erano state fatte con colture comperate a un’impresa di Rockville, nel Maryland.
In materia militare, come nel resto, il mercato predica la libertà, però la concorrenza non gli piace. L’offerta si concentra in mano a pochi, in nome della sicurezza universale. Saddam Hussein mette molta paura. Il mondo trema. L’Iraq potrebbe riutilizzare le armi batteriologiche e, cosa molto più grave, potrebbe arrivare ad avere armi nucleari. L’umanità non può permettersi questo pericolo, proclama il presidente dell’unico paese che ha usato armi nucleari per assassinare una popolazione civile.

A chi chiederemo il conto?

Milioni di persone che non sanno se domani troveranno da mangiare, se avranno un tetto, se riusciranno a sopravvivere in caso di malattia, se la loro pensione sarà divorata dai lupi della Borsa o dai topi dell’inflazione, contadini che non sanno se domani avranno terra per lavorare, pescatori che non sanno se troveranno ancora mari e fiumi non avvelenati: sono forse in balia di Al Qaeda?
L’economia commette attentati che non vengono pubblicati sui quotidiani: ogni minuto muiono di fame 12 bambini. Nell’organizzazione terrorista del mondo, che il potere militare difende, ci sono un miliardo di affamati cronici e seicento milioni di obesi.
Seminare terrore tra la popolazione fa parte integrante della strategia bellica. La guerra è, perciò, il più grande atto terroristico. In essa avviene l’inversione di quanto ha pronunciato Gesù nelle Beatitudini: «Le voci dicono guai ai deboli! Maledetti gli infermi! I forti possederanno la Terra! Chi piange è un vile e non verrà mai consolato. Chi ha solo fame e sete di giustizia va a pescare la luna e a pascolare il vento» (G. Bernanos).

Comunicazione sotto controllo

L’affidabilità della vita e la sua fondamentale bontà, nella guerra subisce un’eclissi totale. L’impero della forza raggiunge la sua pienezza e occupa tutto lo spazio della comunicazione. Il resto tace, come al tramonto del venerdì di passione. Resta il sangue versato a gridare muto l’attesa di una giustizia e a lasciar balenare il sospetto che la «morte non chiude la storia».
Si nota in giro e nei media una diffusa paura di dire le cose come stanno, di usare il linguaggio della verità. Il silenzio del conformismo e del gregarismo avvelena lo spirito pubblico nelle nostre democrazie illiberali. Come giustificare altrimenti il silenzio dei media di fronte ad un Occidente che si blinda contro gli immigrati e divora risorse per gli armamenti? Si diffonde un clima d’indifferenza che produce un vasto silenzio da consunzione, da individualismo, che infiacchisce negli spiriti il senso della ribellione al male, da qualunque parte provenga.

Il fallimento del capitalismo

Nel processo di globalizzazione è diventato sempre più chiaro che il capitalismo non può essere universale. Il mito dello sviluppo per tutti si è rivelato falso, perché i meccanismi economici sono attrezzati per produrre profitto e denaro, ma non per soddisfare bisogni reali. A questo si deve aggiungere che i sistemi di vita dell’occidente sviluppato non sono estensibili a tutto il mondo per i limiti intrinseci al sistema terra. Non solo, ma diventa impossibile mantenere i livelli attuali: vi è un errore di fondo nel rapporto uomo-natura, concepito in termini di sfruttamento e di dominio ottuso.
Un tale sistema può reggersi solo sulla guerra. L’Occidente ha scelto solo se stesso, dichiarando gli altri superflui. Ha scelto la propria parte, il proprio essere, negando l’esistenza degli altri o affermandola solo in quanto utili al proprio scopo.
Un tale mondo si può governare solo con la forza, con la forza di tutta la tecnologia applicata ai diversi campi. In particolare, con la forza della tecnologia militare. La guerra è diventata il passepartout per ogni crisi. Quando ci dicono che questa guerra non finirà mai, forse è un modo per dirci: d’ora in poi se vorrete preservare le vostre isole di benessere, sappiate che vi dovrete difendere con le armi da tutto il resto del mondo. Allora è chiaro che la guerra non serve per battere il terrorismo. Se la guerra viene elevata a strumento universale, c’è una discriminante: i poveri non possono farla. Solo quelli che sono potenti e armati possono fare la guerra. E gli altri?
A loro viene lasciato il terrorismo. Il nuovo terrorismo, che mette in scacco il mondo, è la diretta conseguenza del processo che in questi dieci anni è arrivato a fare della guerra lo strumento universale del governo del mondo. Questa è la situazione contro cui dobbiamo resistere.

Fine della storia?

Alle voci che erano arrivate a dire, dopo il 1989: «La storia è finita e siamo stati noi a portarla a compimento», c’è da rispondere: «Non solo un altro mondo è possibile, ma è doveroso lottare per costruirlo».
La violenza umana si radica nell’incapacità di pensare e soprattutto nella menzogna che, come ricorda Hannah Arendt, «è sempre pronta ad insinuarsi nel cuore dell’uomo che non sa sottoporre a critica se stesso». È tale assenza di profondità e di pensiero che fa mutare il nostro sguardo verso gli altri, facendone dei nemici. Dobbiamo invocare non l’uguaglianza, non la libertà, che nel Novecento hanno contrapposto la visione comunista a quella capitalista del mondo, ma la fraternità.
L’abbondanza di informazioni, che è il tratto tipico del nostro tempo, ci rende responsabili di ciò che sappiamo e, se non diventiamo sensibili alla fraternità, di fronte a quel che sappiamo diventiamo irrimediabilmente immorali. Siamo responsabili del pezzo di Dio che abita in noi e della sua custodia.
«Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi… Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso permettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che veramente conti è salvare un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio» (H. Hillesum, Diario, Adelphi).

Pove del Grappa, febbraio 2003