A sud della storia. Se avesse vinto Franceschiello

di Gravier Olivier

Se fosse prevalsa l’ipotesi federalista di Gioberti, il Risorgimento si sarebbe concluso e la storia dell’Italia unita sarebbe cominciata da dove oggi non siamo ancora arrivati e da dove tutti convengono che è utile ripartire.
Molte furono le cause per cui non si ottenne allora questo risultato: la situazione internazionale (che aveva ripreso a muoversi già nel ’21 dopo l’ingessamento della Santa Alleanza), la miopia politica delle classi dirigenti degli stati preunitari a sud dell’Appennino tosco-emiliano, il vuoto economico di più di mezza Italia (Stato Pontificio e Regno delle Due Sicilie) che provocava il capitalismo settentrionale ad occuparne l’enorme mercato interno (cioè senza dazi), il tradizionale opportunismo dei Savoia impazienti di dismettere la secolare casacca di principotti locali, l’inconsistenza militare del Regno delle Due Sicilie…
Che il Risorgimento non fosse stato una lotta dei “popoli” d’Italia per l’unità lo denunciavano, a chi avesse voluto intenderlo, l’insignificanza sociale dei plebisciti e, a chi avesse voluto rilevarlo, il programma politico di fare gli Italiani, una volta fatta l’Italia.

Tutto cambiò
tutto rimase al Sud

Nel regno del Sud, in particolare, tutto gattopardescamente cambiò (il re, il parlamento, il governo, lo statuto, le alleanze, la capitale, la lingua) perché tutto restasse tale e quale (le baronie feudali, i signori, i latifondi, la malaria, la disoccupazione, il banditismo nell’interno, il lazzarismo nelle escrescenze urbane).
Anzi, le cose andarono peggiorando durante i primi cinquant’anni, l’epoca d’oro del trasformismo: il capitalismo settentrionale non solo occupò il concupito mercato meridionale, ma addirittura si accanì a demolire o almeno a indebolire qualunque struttura (cantieri navali, fabbriche tessili, ingegneristica civile, università) e perfino qualunque attrezzo (fino ai frantoi e ai telai) che potessero competere o contrastare anche da lontano gli interessi del Nord; le terre promesse non essendo state distribuite e i massacri essendo stati perpetrati a Bronte, non restava più che fare la guerra nell’unico modo noto e possibile, il brigantaggio, e, dopo la sconfitta, null’altro restava che emigrare: verso le Americhe e l’Australia, o in Inghilterra e in Francia, se in Europa: significativamente non in Italia del nord.

Una favola per capire
Se avesse vinto Franceschiello (o almeno non avesse perso in quel modo), il popolo meridionale non sarebbe sprofondato nella incomprensione più totale (un canto popolare confondeva incredibilmente “Giuseppe Emanuele e Vittorio Garibaldi”) né avrebbe tanto amaramente vissuto la sua perdita di identità (Dicìti si nun è nu fattu stranu: nascìu ‘n Sicilia, e sugnu ‘talianu!) né avrebbe opposto al potere nazionale un lungo insuperabile scanzonato rancore (Guvernu ‘talianu, ti ringraziu – ca pi pisciari nun si paga daziu – e ca pi farsi na ca… cantata – nun c’è bisognu di carta bullata!).
Se avesse vinto Franceschiello, le università meridionali non si sarebbero consunte nella produzione della retorica pomposa e sterile dei filologi o in quella verbosa e autosoddisfatta dei “paglietta”, ma sarebbe continuata ininterrotta la serie dei Basile, dei Vico, dei Genovese, dei Giannone, delle Pimentel-Fonseca…
Se avesse vinto Franceschiello, l’intellighenzia meridionale non avrebbe proposto il conservatore e immobile ideale dell’ostrica, ma quello progressista e popolare del Naturalismo, cui il Verismo continua tuttavia ancor oggi ad essere incomprensibilmente accostato.
Se avesse vinto Franceschiello, l’Italia non avrebbe indossato il costume uniforme e la maschera funebre di Pulcinella (peraltro evirato di tutta la sua antica potenza rivoluzionaria), ma quello veritiero e vivace di Arlecchino (anche lui, in questa involuzione, ridotto a furbastro servo di molti padroni).

Una vittoria amara
Se tutto questo fosse avvenuto, avrebbe vinto Franceschiello, ma non il re borbone, bensì il protagonista di quella stupenda fiaba che è il Conto della Terra dove nasce la Luna e il Sole.
Ci stava una signora che si chiamava Francesca. Si sposò ed ebbe un figlio. Il marito morì, e lei disse: “Ora gli metto il nome mio”. E lo chiamò Franceschiello. Il ragazzo si fece grande e andava a scuola. Un giorno, alla scuola andò il Mago, tutto vestito per bene, come un signore, a cercare un’anima innocente. Adocchiò Franceschiello, ma il ragazzo non volle seguirlo. Allora il Mago andò dalla madre e disse che era lo zio, e le chiese di imprestargli il ragazzo, e tanto fece che la convinse.

Allora se lo portò, e camminava, camminava… Arrivarono ad un posto dove ci stava una pietra che si apriva e dopo un poco si chiudeva. Per questa pietra si scendeva abbasso ad una grotta. Lo zio disse a Franceschiello di scendere e gli diede tutte le istruzioni su quello che doveva fare laggiù. Franceschiello dovette scendere. Subito trovò i leoni con le bocche aperte che buttavano fuoco, ma non ebbe paura e andò avanti. Più in là trovò le fontane che buttavano fuoco: non ebbe paura, e passò. Infine incontrò il Guerriero. Come lo vide, gli disse: “Dammi l’anello che tieni al dito”. Quello allungò la mano, e glielo diede. Allora Franceschiello tornò sotto la pietra. Sopra c’era lo zio, che voleva prima l’anello. Il ragazzo già pensava che quello, quando si era preso l’anello, se ne andava, e lui rimaneva là abbasso, perché così stava fatto il fatto: che chi si pigliava l’anello, doveva lasciare un’anima innocente. Mentre che dicevano sì e no, si richiuse la pietra. Il vecchio se ne andò, e il ragazzo rimase là abbasso.
Girò e rigirò per la grotta, mangiando le more, per tanti anni che si fece grande, giovane, bello assai e con i capelli ricci e un paio di occhi esperti. Un giorno si trovò in un giardino dove c’erano tanti pomi d’oro. Lì ci stava una cassa, e se la riempì. Per il piacere si fregava le mani, e allora sentì dire: – Comanda, padrone! Finalmente capì che era l’anello che teneva al dito, e gli disse: – Subito a casa mia. Subito si ritrovò a casa della mamma, che manco lo riconosceva. più, e le raccontò ogni cosa, come erano andati i fatti.

Franceschiello si innamora
Tutte le mattine Franceschiello, quando si alzava, dalla finestra sua vedeva sempre una bella ragazza sul terrazzo del palazzo di fronte che lo guardava guardava… La mamma gli disse che quella era la figlia del re. Franceschiello mandò la madre a portare al re un cestino di quei pomi d’oro. Il re le rispose: – Di’ a tuo figlio che se si vuole sposare mia figlia, mi deve fare un palazzo dirimpetto al palazzo mio. Quando fu la sera, Franceschiello comandò l’anello: – Mo mi devi fare un palazzo in tre giorni, che deve stare dirimpetto a quello del re. In capo a tre giorni il palazzo era lì, il re gli diede la figlia, si sposarono, si misero nel palazzo…
Un giorno il re disse a Franceschiello: – Andiamo a fare una battuta di caccia. Si misero a cavallo, e partirono. All’improvviso Franceschiello si accorse che non teneva l’anello, ché se l’era scordata la mattina sopra alla cassa…
Il Mago si era messo in cammino e arrivò fino a là. Quando vide il palazzo, subito capì che la cosa veniva dall’anello. Si prese un cerchio di anelli d’oro, e andava dicendo: – Chi tiene anelli vecchi, gli dò i nuovi! La serva convinse la Reginella a dargli quell’anello vecchio sopra alla cassa. Quando il Mago ebbe l’anello fatato fra le mani, disse: – Subito la Reginella con tutto il palazzo dove spunta la Luna e il Sole!

Franceschiello perde la sposa
e incontra tre animali

Quando il re e Franceschiello tornarono a casa, non trovarono né la casa, né la Reginella, né niente. Il re disse: – Io lo sapevo che questa era opera di magia. Ora ti dò tre anni, tre mesi, tre giorni, tre ore e tre minuti di tempo: se non porti mia figlia, metto il bando che dove ti trovano, ti devono tagliare la testa!
Franceschiello si pigliò il cavallo e si mise in cammino. Si fece notte. Così, per non farsi mangiare dagli animali feroci, se ne salì sopra una quercia, e il cavallo stava sotto. Si presentarono il Leone, l’Aquila e la Formica e litigarono tutta la notte per mangiarsi il cavallo. All’alba, Franceschiello scese dall’albero e fece le parti: la testa del cavallo alla Formica (- Così trovi ricovero, e puoi scavare), la carne all’Aquila (- A te, perché non tieni denti) e gli ossi al Leone (- A te, perché tieni i denti forti).
In ricompensa, il Leone gli diede due peli del collo (- Quando litighi con qualcuno, di’: Cristiano sono, e Leone ho da diventare!), l’Aquila due penne (- Quando devi fare un lungo cammino, di’: Cristiano sono, e Uccello ho da diventare!) e la Formica una zampetta (- Quando devi entrare in qualche parte dove non puoi entrare, di’: Cristiano sono, e Formica ho da diventare!).
Franceschiello provò. Si mise le penne sulla lingua, disse la parola, e cominciò a volare. E volando volando vide una luce lontano lontano sopra a una cima di montagna. Al vecchio della casetta chiese: – Voglio sapere dove sta la Luna e il Sole. Lo sapeva un altro vecchio ancora più lontano, su un’altra montagna, che gli disse: – Va abbasso a quella valle: là ci sta un massaro che tiene tante pecore. Là sta la Luna e il Sole.

Lotta con il Porcospino e fine della favola
Arrivò dal massaro, che gli diede dieci pecore da pascere: – Però non andare in quel tale bosco, che là ci sta il Porcospino, che ti mangia. Franceschiello portò le pecore nel bosco, e si mise sotto un albero a suonare il fischietto. La sera riportò le pecore con le pance gonfissime, che il massaro e le figlie rimasero maravigliati. Il giorno dopo, lo stesso. Uscì il Porcospino: – Stamattina faccio un bel boccone: dieci pecore, il cane undici, la pagnotta dodici, e il padrone tredici! Franceschiello si mise i peli di leone sulla lingua, disse la parola, e cominciarono ad afferrarsi. Si diedero botti di tuono tutta la giornata. Le pecore si erano fatte così grasse che non ce la facevano a camminare. Noi ci dobbiamo mettere di guardia per vedere questo dove porta le pecore – dicevano le figlie del massaro.
E la mattina dopo lo seguirono, e videro che Franceschiello combatteva nel bosco col Porcospino: – Ah, se avessi una zuppa di pane e vino, ti squarterei come una gallina, diceva il Porcospino. – Ah, se avessi una zuppa di pane e latte, ti squarterei come una gatta, diceva Franceschiello. – Ma se noi te la facciamo la zuppa di pane e latte – chiesero la sera le ragazze – tu veramente lo squarti come una gatta? – Sì, rispose lui.
Là vicino, dopo il bosco, ci stava il palazzo di Franceschiello con la moglie e il Mago. Quando fu notte, Franceschiello ci entrò, mettendosi la zampetta di formica sulla lingua. – Tu ti devi far dire come fare per farlo morire, le ordinò Franceschiello. Il Mago le disse: – Devono uccidere mio fratello il Porcospino. A quello gli esce una colomba da corpo. Quella colomba fa un uovo. L’uovo me l’hanno a sbattere in fronte per morire.
Quando Franceschiello si ritrovò a combattere col Porcospino, le ragazze gli buttarono la zuppa. Quattro morsi, se la mangiò, acchiappò il Porcospino e lo squartò. Ne uscì la colomba, che fece l’uovo. Lui se lo mise in tasca, e se ne andò. Tornò dalla moglie. – L’uovo me lo sono procurato: adesso ti devi far dire l’anello dove lo tiene. – L’anello lo tengo cucito nella coscia sinistra, rivelò il Mago alla Reginella. – E adesso mi devi dire quand’è che dorme e quand’è che sta sveglio. – Statti accorto – disse la reginella – che quello, quando tiene gli occhi aperti, dorme, e quando li tiene chiusi, vede! Quando lo vide con gli occhi aperti, Franceschiello gli schiacciò l’uovo sulla fronte, gli squartò la coscia, e si pigliò l’anello. Poi si congedò dal massaro con le figlie.
Erano passati tre anni, tre mesi e tre giorni: mancavano solo le tre ore e i tre minuti. Pigliò l’anello e disse: – Subito a casa mia! Quando il re, la mattina, si andò ad affacciare e vide il palazzo, gridò: – È tornato Franceschiello. È tornato.
Allora si fece una grande festa, con tutto il paese imbandierato!

Riprendendo il filo della Storia
Nei successivi cinquant’anni ed oltre, un abbozzo di unità nazionale cominciò ad intravedersi, ma a che prezzo!
Dapprima la Grande Guerra (presentata come la Quarta Guerra d’indipendenza) per conquistare una “terra da pipa” che, a quanto si sa, il Kaiser avrebbe data gratis se l’Italia fosse restata neutrale (O Gorizia, tu sei maledetta!), ma che doveva farsi perché ciò era utile all’industria (del Nord), mentre nessuna attenzione era dedicata all’agricoltura (del Sud e del Nord: ma il Sud aveva solo quella!), per cui furono ripetute ai contadini-soldati le sperimentate bugiarde promesse del Risorgimento.
Poi il Fascismo, il partito unico, l’italianità, e con essa La Noia per la borghesia cittadina e tante Fontamare per i cafoni. E a magnifica conclusione, la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia distrutta e divisa nella guerra civile, Napoli novantacinque volte bombardata, e il Regno del Sud che si chiude a trappola sul piccolo re vile e fuggiasco, postuma vendetta dell’intrepido e sfortunato Franceschiello.
E poi la nottata che non finiva mai, la riforma agraria eternamente all’ordine del giorno, e di nuovo l’emigrazione, questa volta per il boom verso il Nord, dove però non si affittava ai meridionali e ai cani; le mani sulla città, non solo quella fisica; e sempre la disoccupazione, e la camorra la mafia la ‘ndrangheta la Corona Unita, e il Sud palla al piede (e cattiva coscienza), e la questione meridionale irrisolta questione nazionale.
Eppure dal centro-sud partono il neorealismo, il teatro di Viviani e quello di Eduardo, le edizioni Laterza, la letteratura (penso a Vittorini), la ricerca storica (Sciascia, per fare un nome), la riscoperta del glorioso passato (la Magna Grecia, le città vesuviane, il Regno Normanno, Federico II, le Repubbliche Marinare, la scuola salernitana, la rinascenza angioina, lo splendore aragonese e giù giù fino alla Napoli del 1799 e al Parlamento del 1820-1821…) e delle immense tragedie (eruzioni e terremoti, guerre, carestie, pesti, esazioni, rivolte, repressioni…).

Forse la metafora più pura delle ambiguità e delle contraddizioni del Sud è offerta dalla maschera tragicomica di Totò, ipotetico principe di Bisanzio e certissimo morto di fame, costretto a fare il guitto per tirare a campare:
“Torno nella miseria
però non mi lamento
Mi basta di sapere
che il pubblico è contento”
(Applausi).

Olivier Gravier
Docente e preside
di scuola media superiore.
Risiede a Velletri.