Il sonno interiore senza sogno

di Marchesin Maurizio

1.

Dove vi avevo lasciato l’ultima volta? Ah sì, fuori dal cancello sotto l’acqua. Purificatevi. Cosa ci volete fare, cari ora dodici acciaiosi lettori, fatti non foste a viver come imbuti e quindi meno anche voi al doloroso mazzo.

Lo so, lo so, cupe vampe livide stanze (alla CSI) su questa seconda tappa del nostro cammino (comunque fidatevi, è tutto calcolato: poi ci tiriamo su) perchè ci addentriamo nel non-luogo, nel sancta sanctorum, nella selva oscura, nella caneva (in veneto), nella cantina. Insomma: nel sepolcro.

Nel Sepolcro? Odo già rapidi picchi di corna, tocchi di palle. Occorre precisare. Il sepolcro, purtroppo, non è solo quello standard. Ne esistono infinite varianti, ognuno se ne costruisce uno a suo aggrado, oserei dire a sua immagine. C’è chi preferisce erigere a sepolcro la famiglia, altri la carriera; molto, molto popolare anche il denaro. Più sofisticati coloro che scelgono gli ideali, la politica, la chiesa, una certa maniera di intendere gli enti citati ovviamente. E via via elencando, con una caratteristica che accomuna tutte le varianti: il sepolcro è quella situazione in cui ciascuno di noi che cinque minuti prima era vivo entra (volente o volante, come si dice) e si trova nel buio e da solo. Sparito tutto, spariti tutti. Intanto questo, poi vi devolvo il resto. Adesso zitti, luci, sipario. Entra Mario: a casa sua.

2.

E chi ha va a dormire adesso? pensò Mario girando con cautela la chiave.

Cercò a tastoni nel buio l’interruttore della luce. Click. Buio.

«Lampadina fulminata». Provò allora la luce del cancelletto esterno.

Click. Buio. «Manca proprio la corrente invece». Niente tv, niente libri. E chi si addormenta più adesso?

Fu così che trovò una scatola di EMERGENZA BUIO (la sposa previdente ne aveva disseminato la casa), e scese con la candela accesa in mano gli scalini che portano allo scantinato. Passò in rassegna l’ammasso di cose stipate nella stanza, lentamente, silenziosamente. Lì c’erano gli esoscheletri delle sue vite, il residuo secco dei propri sogni. Sembrava Dante che attraversa senza nessun Virgilio gironi e gironi di esperienze passate: le proprie, quelle della moglie. Si erano sedimentati sul pavimento anche alcuni strati più recenti della figlia (nella fattispecie una giraffa di gomma di quelle che premendo suonano: una vera mina acustica anti-uomo ad incontrarla al buio, di notte).

Scansò accuratamente la giraffa anti-uomo e la candela spinse il suo spot tremolante su vecchi manifesti di rinnovi contrattuali, libri di ere geologiche precedenti, moto-cimelio-vespa-150, uno zaino sul quale spiccava uno stemmino in stoffa con su scritto «CHILE». Era quello che aveva usato per il suo viaggio in Cile quando ancora el hondero era entusiasta, Allende era vivo, Pablo Neruda era vivo. Anche lui allora si sentiva piuttosto vivo.

«Chissà quando la Rita (che sarebbe la moglie) mette a posto sto casino…e i fogli, i fogli per terra! E questo, e questo chi è che butta in giro i fogli… cos’è? Ma quant’è che non vengo qua? Cos’è… eh porca…proprio adesso». Eh sì. Forse non si vedeva, ma solo il Pablo nacionàl seduto sopra gli scatoloni (o la figlia del Mario, fate voi) poteva piazzare in una notte così nera per il nostro una pagina di quel libro buttata per terra che più casuale di così sembra di essere al cinema. E in quella cazzuolata paginetta la candela leggeva: venite a vedere la sua casa violata, le porte e i vetri infranti, venite a vedere i suoi libri ormai cenere, a vedere le sue collezioni ridotte in polvere, venite a vedere il suo corpo lì caduto, il suo immenso cuore lì rovesciato sopra la scoria dei suoi sogni rotti, mentre continua a correre il sangue per le strade.

Da una poesia così si sente che anche il Neruda aveva una cantina ridotta a una schifezza, come il cuore del Mario, foglietto tremante in mano.

3.

Beh, nell’intervallo vi conto una cosa. Si diceva del sepolcro (o caneva). Quindi: uno arriva lì solo e al buio. E poi?

Succede qualcosa (a volte non succede assolutamente niente e il problema sta lì) per cui uno si trova il nulla alle sue spalle, il vuoto dietro di sè, con un terrore come di ubriaco direbbe l’Eugenio. Tutto o quasi di quello che ci rendeva vivi è scomparso nel tritacarne quotidiano.

A quel punto, il procedimento può prendere anche parecchio tempo, si decide che è finito tutto, game over, «non ci credo più», crisi, eccetera. Insomma: si apre la fase sepolcrale. Che di per sè non è negativa, anzi. Il Freudo diceva che la conoscenza comincia con la disillusione. Tanto per dire: il mio prosecco riserva nella caneva (il suo sepolcro) lavora i suoi zuccheri per ottenere il meglio di sé. Matura. C’è gente che in tre giorni ha fatto miracoli… Ho un dolore intercostale nel vedere invece che spesso preferiamo la soluzione ceto-mediale del sonno. Dire che decidiamo è grossa.

Facciamo che non vediamo alternative, e bene non sappiamo fuori dal miracolo che schiude la divina indifferenza (ah, Montale assasin!). Il sonno. Il sonno interiore senza sogno. Ne uccide (dentro prima che fuori) più lui che gli incidenti in auto. A ben vedere (lo dico per quelli che sono ancora con la mano scaramantica nei pantaloni), la morte vera è una ipotesi residua, come i fulmini in montagna, ed ha una intatta dignità.

Coraggio, figliuoli, c’è ben di peggio.

E il Mario cosa fa nel suo sepolcro? Non ve la smeno più, lampeggiano le luci, inizia il secondo atto. Passami i pop-corn.