Dopo il Rwanda, al presente

di Pegoraro Tiziano

Riflessione di un missionario di ritorno dall’Africa

Ad un anno e mezzo dal mio rientro in Italia, a causa della guerra civile in Rwanda che ha visto contrapporsi gli eserciti e i miliziani delle etnie Hutu e Tutsi, sento di essere profondamente ancora unito a quel popolo, che amo e ho cercato di servire come missionario per quasi dodici anni. Non mi spiego ancora come si sia potuta scatenare tanta violenza. Sì, c’erano le premesse nella guerra iniziata il 1° ottobre 1990; c’erano le allucinanti proposte, fatte anche dai mezzi di comunicazione sociale, di passare “al lavoro” e di spedire i Tutsi al loro Paese di origine. C’erano stati diversi attentati ad uomini politici contrari al regime del presidente Habyarimana e alla sua cricca, formata da uomini della sua famiglia e della sua regione; c’erano stati anche dei massacri di civili al nord, di cui non c’è stata nessuna inchiesta…; c’erano soprattutto quasi settecentomila sfollati che, fuggiti dalla zona settentrionale del paese, occupata dalla guerriglia del Fronte Patriottico Rwandese (FPR), dimoravano, come mosche, accampati nei campi di raccolta nei dintorni della capitale.
Ma tutto questo non era una premessa logica al genocidio e ai crimini verificatisi dal 6 aprile fino al giugno 1994. Le mostruosità sono comparse all’improvviso, almeno nella nostra regione meridionale, alla frontiera con il Burundi.
Che ci fossero stati dei preparativi nelle file degli estremisti, ora sembra essere opinione comune. E sicuramente la decisione e la repentinità degli interventi suppongono un piano, almeno dalla parte dei diretti responsabili. Una volta abbattuto l’aereo presidenziale il 6 aprile 1994, con l’assassinio del Presidente del Rwanda e del Burundi, il fiume della violenza ha rotto gli argini. Nessun centro di potere politico o sociale a livello nazionale e internazionale ha saputo opporvisi.

Uomini e donne di pace
Diversi rwandesi hanno difeso la propria dignità, negandosi alla violenza e subendo anche le conseguenze della vendetta. Molti sono stati uccisi perché parteggiavano per la pace e la non-violenza. Questi casi non sono comparsi sugli schermi televisivi o sui giornali. Ma ve ne sono stati. La mia esperienza nei gruppi di preghiera, soprattutto in preparazione della Pasqua, mi ha fatto notare una tensione inconsueta e quasi un’attesa gioiosa della Risurrezione, nonostante il clima sociale incerto. Molti cristiani erano come preparati a morire, lo consideravano un’eventualità prossima. Nei loro discorsi e sui loro volti non c’era odio. Troppo poco al confronto delle nefandezze compiute? Eppure è segno di una realtà morale, che ci introduce nel cuore di persone che sono passate fra gli strazi della grande tribolazione.
Questa realtà vissuta mi conforta. E serbo con gratitudine il ricordo di uomini e donne, che sono vissute uniformandosi alla legge del Signore fino alla morte. Il loro coraggio ed entusiasmo cristiano non deve essere dimenticato. Il male esecrabile compiuto da altri non intorbidisca il loro ricordo! È il frutto migliore dell’apostolato missionario maturato fra loro.

Un presente crudele
La tragedia umana tuttavia è stata inequivocabile. Purtroppo essa è ancora in atto. Si manifesta come progetto di sterminio dei vinti, in un clima sociale dove la delazione è divenuta costume. Le cifre della violenza attuale non sono meno strazianti di quella che ha armato di machete i responsabili del genocidio. Le prigioni-lagers consentono di stipare quattro detenuti per metro quadrato; si contano circa 1500 decessi al mese; l’esercito compie 400 arresti per settimana; cibo e medicinali sono al minimo necessario, perché l’opinione normale è che si tratti di condannati a morte. Nessun giudizio è stato effettuato, quando la legge rwandese prevede l’incontro con un giudice entro le prime ventiquattro ore di detenzione. L’ex ministro della giustizia, fatto dimettere per “incapacità”, sembra che avesse cominciato ad esaminare i dossier meno problematici. Ci sono casi di persone messe in libertà e riprese dall’esercito per essere chiuse in un altro carcere o fatte sparire.
Riflettere sul Rwanda, purtroppo, non consente di parlare al passato prossimo, ma obbliga ad un presente crudele, pieno di sofferenza per alcuni (i vinti) e di soddisfazione per altri (i vincitori).
Allora rifletto sulla mia presenza missionaria. Cosa ho fatto in questi anni? Che vangelo, che vita cristiana ho vissuto e presentato? Al di là di ogni vittimismo, sento amaramente il limite della mia missione, soprattutto per non aver potuto fermare nessuna mano omicida. Nemmeno quelle di coloro che hanno colpito George, un giovane francescano rwandese di 25 anni. Avevamo escogitato di tutto, per ben due ore, dopo un viaggio fatto per riportarlo a casa assieme ai suoi tre confratelli. Ma sulla strada del ritorno, verso le 20.30, il gelido passo della morte ci ha obbligati a farcelo sottrarre di mano e lasciarlo cadere in quelle dei suoi assassini, che si divertivano a mostrarsi l’un l’altro le gocce di sangue vivo grondanti dai loro machetes.
L’impotenza di intervenire, l’inutilità di ogni soluzione e la paura del peggio. Pur avendo tenuto fino alla fine… tutto era inutile per opporsi alla violenza e al volto della morte cruenta. La solitudine di fronte alla morte, e la paura! Ho pensato a Dio per confidare nella sua misericordia coloro che erano umanamente condannati alla morte. Ormai ero inutile ad urlare una parola di saggezza o a proporre un gesto di umanità: erano solo avidi di morte.

Una catechesi superficiale?
Eppure tra loro c’erano anche dei cristiani. Al collo portavano il rosario, ricevuto nel giorno del battesimo. Uno leggeva perfino i salmi. Una catechesi sbagliata, ritualista, estranea al loro universo morale e culturale, una catechesi superficiale e scontata? Tutto si può dire, partendo dalle evidenze dei massacri e dei crimini. Ma forse ogni accusa in questo senso è ingiusta e demagogica. Come quando si pensava che “i negretti” fossero innocenti e beati nella loro povertà e nella loro ignoranza del progresso occidentale. Idealizzati nella loro bontà naturale, ora si pretende di trovarli tutti eroi e tutti martiri… E in Europa si dimenticano non solo le terribili guerre del passato fra popoli cristiani, ma anche le umilianti situazioni della società contemporanea, composta da una maggioranza di cristiani.
Il dramma vissuto mi offre un altro orizzonte: quello della tentazione e della conversione. Due realtà che convivono nell’uomo, e che esigono una decisione morale quotidiana per il bene. Sono realtà presenti ad ogni uomo di qualsiasi cultura e religione. Solo colui che si fa discepolo di Gesù Cristo ogni giorno, diventa disponibile per opporsi alle necessità di una natura umana purtroppo vincolata alla violenza. È la mia scoperta del disastro umano del Rwanda. Una banalità, forse. Ma fortemente innovatrice per rapporti di fraternità e di comprensione fra i popoli, ed anche individui. In questo senso riscopro la preziosità del messaggio cristiano, e l’attualità della missione all’interno e all’esterno della comunità cristiana: ovunque viva l’uomo.