La fine del modello sovietico

di Baldo Sonda Diego

Se si mette piede oggi a Mosca, città dagli 850 anni di storia, fulcro del commercio e avamposto di modernità economica e culturale, ci si trova di fronte ad una metropoli nostalgica e disorientata, confusa e disordinata, iniqua e pericolosa. Se si chiede, a chi pensa ancora che un’economia pianificata dia performance più elevate rispetto ad una di libero mercato, come mai ciò non sia avvenuto nei paesi che hanno vissuto questa esperienza, sicuramente dirà che ciò a cui abbiamo assistito nell’est Europa non è socialismo.
Quando ci si riferisce ai fenomeni di concentrazione della ricchezza, alla incapacità di tutelare il più debole, alla perdita di identità della persona e alle distorsioni della società consumistica, tanto per citarne solo alcuni, si vuole sicuramente segnalare le anomalie endogene del libero scambio. Ormai, di ciò, nessuno più si stupisce. Viceversa, tutti sono convinti che la somma algebrica tra i benefici ed i malefici sia massima in un’organizzazione economica capitalistica.
Focalizziamo la nostra analisi a quella che veniva chiamata Unione Sovietica ed ai paesi che da essa politicamente dipendevano. Così Eltzyn, in un incontro con Russia Democratica il primo giugno del 1991, ha riassunto l’esperienza socialista dell’Unione Sovietica: “Il nostro paese non è stato fortunato. Infatti, fu deciso di condurre l’esperimento marxista su di noi – il destino – più precisamente, ci spinse in questa direzione. Piuttosto che da qualche paese africano, l’esperimento cominciò da noi. E noi abbiamo alla fine dimostrato che non v’è nessun luogo adatto a simile idea. Essa ci ha solo sospinti lontano dalla via che i paesi civilizzati del mondo hanno imboccato. Tutto questo è oggi chiarissimo, quando il 40 per cento della popolazione vive sotto il livello della povertà e oltretutto in costante umiliazione, allorché riceve prodotti sotto forma di tessere annonarie. È un’umiliazione continua, un promemoria che ad ogni ora ti ricorda la tua condizione di schiavo in questo paese”.

I sogni e le contraddizioni
Il cittadino medio sogna il comunismo; sogna l’immagine di potenza che l’Unione Sovietica di 10 anni fa aveva. Si dimentica che a ciò ha sacrificato il proprio benessere. Sogna la superpotenza, disprezza l’operato di Gorbaciov; ama, però, la Coca cola ed il monopattino. Non si ricorda più delle file per il pane; si lamenta che il rublo perde di valore, che nei negozi più forniti i prezzi sono indicati in dollari; vuole, però, essere stipendiato in tale valuta. Prova invidia per chi si arricchisce in fretta, lo definisce mafioso ma non ha il coraggio di tentare la libera impresa, di lavorare un po’ di più del minimo.
In metropolitana si trova uno sfarzo ostentato e decadente tipico di chi è povero e non lo vuole far vedere. È in quella rete di gallerie a profondità vertiginosa, a metà strada tra rifugio antiatomico e mercato di prezzemolo, che ogni giorno passa il 90% della popolazione: solo il 10% può permettersi un mezzo di trasporto alternativo. Se si esce in una delle 167 stazioni, ci si guarda attorno, si vede ogni sorta di veicolo: tutti con almeno 10 anni alle spalle, tutti da buttare, tutti, però, in regola con la ferrea revisione annuale. Ci si accorge che il papà porta a scuola i figli con il camion da cantiere intralciando disinvoltamente il traffico ed esibendo il proprio privilegio. In auto si incappa inevitabilmente in un vigile il quale riconosce subito lo straniero, la sua nazionalità e non si lascia scappare la possibilità di fargli una multa.
In periferia ci si rende conto che il tempo si è fermato se non fosse per qualche grattacielo di 20 piani che qua e là si erge nella verde distesa quasi sempre violentata da una scarsa sensibilità per l’ambiente. Vi si può incontrare una bambina che porta al pascolo una mucca o la mamma che la munge; un contadino che cerca di riparare alla meno peggio il tetto della sua casa in legno o una vecchia che raccoglie legna per il caminetto visto che il teleriscaldamento della città sino a lì non arriva. E ancora, un operaio che, preso in affitto un fazzoletto di terra, pianta patate, cipolle e verze per venderle lungo la strada della capitale.

Un errore strategico
Col senno di poi, si può sicuramente affermare che almeno un errore è stato compiuto nella visione strategica dei fautori dell’U.R.S.S.: non hanno considerato che l’economia pianificata è il passo successivo all’economia di libero mercato. Quest’ultima riesce a massimizzare i vantaggi della collettività ma non riesce a ripartirli in modo equo. In uno stato con burocrazia efficiente dove l’economia di mercato ha fatto il suo corso, la pianificazione economica dovrebbe dirottare risorse in ambiti altamente rischiosi (ricerca scientifica) o che non danno opportunità di profitto (stato sociale, produzione di servizi in situazioni antieconomiche ecc.). L’economia pianificata dovrebbe anche tutelare da strane curve di utilità dell’imprenditore per le quali quest’ultimo decide di distrarre volutamente ricchezza dal circuito economico.
Quando nel ’17 si decise di instaurare in Unione Sovietica uno stato collettivista, questo principio non fu per niente considerato. Il risultato è che, mentre riuscì a sopportare la sfida con l’occidente durante i primi quarant’anni di vita (quando per condizioni di partenza e per disponibilità di risorse la competizione era abbastanza facile), l’organizzazione del mondo sovietico e parasovietico non si è dimostrata all’altezza di gestire la complessità emergente alla fine del millennio. I tassi di crescita sbalorditivi ottenuti sino agli anni ’50 hanno lasciato il posto ad un galleggiamento nella seconda metà del secolo.
Principalmente ciò è accaduto perché la burocrazia russa non era preparata a sopportare un tale sforzo e perché il senso di riconoscimento dell’individuo era frustrato dall’appiattimento sull’uguaglianza.

Lo scoglio della complessità
Chi pensava fosse sufficiente un calcolatore più potente per poter risolvere problemi di programmazione più complessi e cogliere la realtà che si andava complicando, si è scontrato con la necessità dei funzionari sovietici di cambiare numerosi prezzi al giorno per cercare di raggiungere l’equilibrio macroeconomico. Quando anche ad essi fu chiaro che non si poteva continuare a rincorrere la complessità si tentò di adattare la realtà al modello macroeconomico (si limitavano, ad esempio, le varianti dei prodotti) e si ipotizzò che quella si identificasse con questo. Tutti ricordiamo le code dei cittadini russi davanti ai negozi semivuoti. Tutti ricordiamo, cioè, le conseguenze di un’inflazione repressa, di un aumento dei prezzi cancellato per decreto. La debolezza intrinseca della burocrazia abbinata ad una forma di stato totalmente centralizzato ha fatto il resto. Infatti, chi riesce ad infiltrarsi in un flusso monetario e si avvantaggia di un decimale del valore di ogni unità prodotta di un determinato bene, si arricchisce in modo veloce visti gli enormi volumi in ballo. Questo, assieme ad altro, ha amplificato enormemente la propensione all’immoralità e ad un uso strumentale della propria posizione ed ha impedito l’appropriata distribuzione delle risorse. Questo modus operandi, a Mosca, era ed è ben visibile. Il ricorso al clientelismo è la prassi. All’amico del fruttivendolo non mancava mai la frutta anche se il negozio era completamente vuoto. Ora l’amico del funzionario del tesoro non ha grosse difficoltà per ottenere l’autorizzazione per aprire una nuova banca. I dati macroeconomici, se ce ne fosse bisogno, confermano questo stato di cose. Il tasso di efficienza della spesa pubblica si va progressivamente abbassando. La ricchezza si concentra con una velocità sconosciuta ad un paese capitalista. L’aumento della criminalità organizzata denota la necessità di una affiliazione con chi riesce ad infiltrarsi negli apparati statali.
La mancanza di differenziazione sociale tra chi è economicamente meritevole e chi no provoca la mancanza di impegno e abbassa la produttività del lavoro. Si è tentato di sostituire la spinta generata dal perseguimento del proprio interesse con altri ideali, col patriottismo per esempio: a Mosca nel giro di 3 anni si sono costruiti 3 importanti monumenti: il parco che commemora la vittoria della Seconda guerra mondiale, la chiesa del Salvatore e sulla Moscova il Monumento alla marina ed una sola importante opera pubblica, il ponte che unisce Mosca alla City. Ma l’esperienza mostra che tali surrogati non sono altrettanto pregnanti. A Mosca, spesso si sente dire che il russo finge di lavorare e lo stato finge di pagarlo.
Quello a cui abbiamo assistito in est Europa non è una cattiva interpretazione dei padri dell’U.R.S.S. dell’economia collettivista, è il risultato pratico dell’applicazione della stessa ad una società di uomini che hanno come spinta primaria il bisogno del loro riconoscimento. Quello a cui abbiamo assistito nell’est Europa, allora, è il miglior socialismo possibile.