Dolore
Nella Torà
Il dolore è una costante che caratterizza l’esistenza di tutti gli esseri viventi. Accompagnato dalle sofferenze e dalla morte, diviene quasi una punizione riparatrice destinata a porre rimedio agli effetti e alle conseguenze che la trasgressione o la colpa commessa dall’uomo possono produrre sia sull’ordine delle cose create, sia sul contesto sociale, sia sul piano etico e morale. Dato che, nel disegno di Dio, la stabilità del mondo creato è affidata al libero arbitrio dell’uomo, il quale nel suo scegliere e nel suo agire è condizionato dalla forza dirompente dell’istinto al male, di cui Dio nel crearlo lo ha dotato, il cammino dell’uomo deve essere indirizzato lungo una strada capace di fare emergere l’istinto al bene.
Insegna il Talmud: «Ha detto rav Ami: Non c’è morte senza peccato e non ci sono sofferenze senza colpa» (bShabbat 55a). Come peccato e colpa non sono eliminabili da questo mondo, così anche la morte e il dolore sono il viatico dell’uomo e, quando questi è portato a superare i limiti e a non riconoscere di dipendere in tutto da Dio, gli ricordano il senso della finitezza e lo invitano ad affidarsi completamente al Signore, il Consolatore e il Redentore. Il dolore e le sofferenze non sono solo l’espiazione del peccato e della colpa, ma anche il cammino, propedeutico e pedagogico, che porta l’uomo a superare l’orizzonte basso di questo mondo per proiettarsi, a partire da questo luogo, da questo corpo e da questa vita, nella dimensione del mondo a venire, non come forma consolatoria ma come testimonianza di fedeltà assoluta a Dio, alla sua giustizia e al suo amore.
Se è così, le sofferenze devono essere ricercate e amate? In una pagina del Talmud, a tre maestri, caduti malati (rabbi Chijjà, rabbi Jochanan, rabbi Eliezer), viene chiesto se amino le sofferenze; tutti e tre rispondono: «Né esse né la loro ricompensa» (bBerakot 5b). Ne deriva che l’uomo, anche se è capace di infliggere sofferenze a se stesso (agli altri uomini e al creato), non deve di propria iniziativa andare incontro al dolore e alla sofferenza; anzi, se possibile, deve evitarli perché è chiamato a fare di tutto per mantenersi in una condizione, fisica e mentale, che gli consenta di compiere i precetti della Torà in forma piena e completa. Ci sono, però, sofferenze che, negli imperscrutabili disegni di Dio, risultano gradite: sono le «sofferenze che derivano dall’amore» (jissurin shel ‘ahavà), ossia le sofferenze che Dio manda ai giusti. Il giusto è l’icona del disegno di Dio, in quanto incarna, nel corpo e nell’anima, le due vie: la via della Torà, compiuta e studiata per amore dei Cieli, e la via del dolore, accolta e percorsa come fuoco di conoscenza. E, in questa perfetta aderenza a Dio, il giusto acquista meriti per l’umanità intera ed è grazie al deposito di questi meriti che la porta della misericordia continua a rimanere aperta.
Se, infatti, il dolore può avere un senso nella vita dell’uomo, lo si deve ricercare nel grido silenzioso che la sofferenza alza al Cielo e che costringe Dio a non distogliere il suo volto dalla sua creazione e a soffrire assieme ai suoi figli fino alle doglie del tempo della venuta del Re Messia. I Maestri si sono chiesti se si può fare in modo che siano risparmiate all’uomo queste doglie, e la risposta è: «Che l’uomo si dedichi alla Torà e alle opere di misericordia!» (bSanhedrin 98b). Se la misura della misericordia di Dio tiene il mondo ancorato alla redenzione nonostante l’abisso del peccato, forse anche la misura della misericordia da parte dell’uomo, accompagnata dalla dedizione alla Torà, può attenuare, qui e ora, il dolore e la sofferenza sia per la singola creatura sia per il mondo intero.
La Torà e le opere di misericordia sono colonne che possono reggere il mondo grazie alla scelta libera di uomini liberi; il dolore e la sofferenza, invece, sono via privilegiata perché aprono la porta dei Cieli e, se è possibile dirlo, costringono Dio ad affrettare la redenzione definitiva.
Gianpaolo Anderlini
Nel Corano
Seppure con la cautela dovuta alla complessità delle tradizioni esegetiche e della cultura teologica musulmana, è lecito asserire che nell’islam la nozione di dolore, con la sfera semantica che attorno a essa si aggrega, viene ad avere una collocazione e una rilevanza all’interno del sistema simbolico da esso proposto difficilmente riconducibile a un confronto lineare con quanto in proposito avviene nel contesto cristiano.
Il tema del dolore, infatti, appare abbastanza defilato nella scrittura coranica, dove il termine élam, che congiunge in sé i significati di dolore e di sofferenza, quasi non figura, mentre più frequente è l’aggettivo élim (doloroso), in genere associato ai patimenti connessi con il castigo divino. Si veda ad esempio: «Non ti sarà detto altro che quel che fu detto ai messaggeri che ti precedettero. In verità il tuo Signore è il Padrone del perdono, il Padrone del castigo doloroso» (XLI, 43).
Certamente nella cultura islamica esiste una, anche raffinata, analisi delle forme di dolore e di sofferenza fisica o morale. Tuttavia, tale sviluppo prende più l’aspetto dell’indagine fisiologica e psicologica che dell’elaborazione più propriamente teologica. In altri termini, il dolore esiste come vicissitudine legata alla condizione materiale del corpo umano, e alla suscettibilità psichica della Nafs (anima) a subire il disordine prodotto dalle tentazioni, che la distolgono dalla dimensione più propriamente r hia (spirituale). Si pensi in proposito alla grande tradizione medica e anche psichiatrica (Al-Farabi, Avicenna, Averoe…) che ha caratterizzato il mondo islamico già nell’epoca che nella tradizione storica europea siamo soliti chiamare medioevo. L’esperienza del dolore, infatti, nel Corano non viene ad avere una valorizzazione come parte di un itinerario salvifico. Il dolore esiste e va sopportato con pazienza, poiché esso è intrinseco al tracciato della vita deciso dalla volontà divina, ma di per sé non è né la manifestazione di una condizione di peccato, né un’espiazione che comporti un avvicinamento alla salvezza finale. A decidere è sempre il decreto divino, irriducibile a letture che vi scorgano una logica umana e che, si ribadisce costantemente nel Corano, terrà conto della totalità degli atti compiuti nel corso della vita.
«[…] Il vostro Dio è un Dio unico. A Lui sottomettetevi. Danne la lieta novella agli umili. Coloro i cui cuori fremono al ricordo di Allah, coloro che sopportano con costanza quello che li colpisce e coloro che assolvono l’orazione e sono generosi di ciò di cui li provvedemmo» (XXII, 34-35).
Lo stesso sentimento di compassione verso la sofferenza altrui è pienamente legittimato proprio dall’assenza di una contestazione della giustizia divina. Per un verso si riconosce che il dolore, come tutto ciò che ci giunge, deriva da una disposizione divina, dall’altro, è lecito lamentare la propria e l’altrui sofferenza e tentare di porre rimedio per quanto possibile al disagio. Non a caso, alcuni hadith [detti del profeta] presentano Mohammad, commosso dalle sofferenze provate dai parenti e dagli amici, proclamare l’origine divina della compassione, e quindi dare ampio valore anche alla condivisione del dolore con l’altro.
Egualmente distante dalla protesta nei confronti dell’imperscrutabile qadar (volontà divina), come dalla rassegnazione fatalistica che vorrebbe il dolore come prova necessaria in sé portatrice di benefici futuri, l’islam sembra proporre una via nella quale il confronto con la sofferenza chiama l’uomo a mettere in campo tutte le sue risorse emotive e razionali nella ricerca di un miglioramento possibile della propria condizione, e soprattutto di quella adesione attiva al movimento della volontà divina che sola può evitare il vero dolore irrimediabile, quello del fallimento rappresentato da quel disordine di vita che può incontrare la sanzione di al-‘adhaïb al-élïim [castigo doloroso] eterno.
Mohammed Khalid Rhazzali
Nel Nuovo Testamento
Toccare il tema, o meglio il problema, della sofferenza è un’impresa pericolosa: non ci sono facili accomodamenti, né soluzioni pronte da cercare o da fornire. La sofferenza scardina le nostre logiche: parlare di essa vuol dire inoltrarsi nel mistero e arrivare a ciò che non si può dire.
C’è un brano musicale che mi sembra esprimere meglio di altri questo atteggiamento: si chiama «La domanda senza risposta» ed è stato composto da un musicista americano, Ives.
Mi ha sempre colpito questa breve composizione di cinque minuti, che comincia con una sorta di corale, suonata da un’orchestra d’archi al limite dell’udibile. Su questa specie di tappeto sonoro, elegiaco e dolcissimo, si leva la frase angolosa di una tromba, che sembra essere un interrogativo sgomento, un perché singhiozzato al quale alcuni strumenti tentano di rispondere con un cicaleccio scomposto e disarmonico. La sequenza della domanda è ripresa con sempre più grande intensità, si pone in maniera sempre più caustica e dissonante, ma non c’è una risposta soddisfacente che risolva il quesito. A questo interrogativo, infatti, risponde una immobilità cosmica: il silenzio del mistero.
A una prima lettura un brano del genere potrebbe solo fomentare il pessimismo dell’uomo che non trova risposte al problema del soffrire. Questo è sempre stato il problema dei filosofi e della religione: spiegare perché ci sia il dolore. Ma a chi soffre qualsiasi spiegazione appare come una bestemmia, un’offesa. Forse la prima cosa da fare è proprio accettare l’incomprensibilità di questo aspetto della vita e meditare quanto ci racconta il Vangelo. Gesù non si avvicina ai malati fornendo loro le spiegazioni sul loro stato, né snocciolando una lettura teologica sulla sofferenza: ha semplicemente offerto comprensione, vicinanza; ha guarito quelli che incontrava, ha vissuto compassione e tenerezza per ogni afflitto. In questo noi comprendiamo che Gesù «spiega» la sofferenza, prima guarendola e poi assumendola al momento della sua passione e trasfigurandola nella risurrezione.
Simone Weil diceva che «l’estrema grandezza del cristianesimo deriva dal fatto che esso non cerca un rimedio soprannaturale contro la sofferenza, ma un uso soprannaturale della sofferenza». Cristo che ha preso su di sé il peccato del mondo, ha portato su di sé anche le sofferenze dell’umanità: ogni uomo ferito è raccolto dalla sofferenza di Gesù, ogni dolore è riassunto dal dolore di Dio.
La risposta alla domanda del dolore è un’altra domanda: noi chiediamo perché soffriamo, Dio ci chiede con chi soffriamo.
Se cerchiamo soluzioni, il quesito si staglia nel vuoto dell’incomprensibile: il Nuovo Testamento, invece, ci presenta Qualcuno con cui stare per accettare la sofferenza. La fede è sentirsi con Gesù, in sua compagnia, tenuti saldi dal suo amore, sicuri che nulla va perso di quanto si vive: non il dolore, né la gioia, non la malattia né la salute. Il cristiano che soffre impara un po’ alla volta a entrare nel mistero, ad assumerlo senza cercare facili risposte, ad accettare la fragilità della vita sperimentando in essa l’amore del Creatore che non ci abbandona mai. È quello che canta Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?… Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8, 36ss).
La dimensione fuggevole della nostra storia, con la sua parte di dolore, diventa per mezzo della fede una parola, la Parola: Gesù Cristo che rimane sempre accanto a noi per sussurrarci la potenza della vita.
Elide Siviero