I piedi che fanno camminare la storia

di Stoppiglia Giuseppe

Contro le nuove idolatrie

«La speranza è come una strada
di campagna,
che si forma perché la gente inizia
a percorrerla».
Proverbio indiano

«Quelli che vanno a piedi non possono
essere fermati.
Noi siamo i piedi in marcia
per raggiungervi,
vi reggeremo il corpo, fresco
di forze nostre.
Spaleremo la neve, allisceremo i prati,
batteremo i tappeti, noi siamo i piedi
e conosciamo il suolo
passo a passo».
Erri De Luca, Sola andata

Di notte sul metrò

Quando sono in città, amo viaggiare sui mezzi pubblici. La settimana scorsa sono arrivato a Milano molto tardi, a notte inoltrata. Trafelato, ho preso al volo una delle ultime corse della metropolitana dalla Stazione Centrale a Porta Garibaldi. Ho guardato i miei compagni di viaggio all’interno di quel vagone: io ero l’unico bianco. Mi è sembrato di essere davanti a una parabola del nostro futuro, quando la miscela dei popoli sarà così densa da rendere comune una simile esperienza.

Capisco, però, che tutto questo avverrà con fatica: le paure reciproche sono sempre in agguato e possono esplodere con veemenza. Uno dei fuochi più devastanti è quello del razzismo e della xenofobia, che oggi serpeggia sotto apparenti forme di autodifesa, nasce appunto dalla paura dell’altro, del diverso. Certo, la coesistenza delle differenze è ardua ed esige un lavoro paziente di dialogo e di rispetto da entrambe le parti, tuttavia la brutalità del rigetto razzista non aiuta a risolvere i problemi, anzi li rende più duri e aspri, non libera dai timori, ma, viceversa, rende la vita piena di acredine e rabbia.

Scene di barbarie ordinaria

Sant’Agostino scriveva che «un uomo solo è in compagnia dei suoi peggiori nemici». Oggi noi dobbiamo essere davvero molto soli per giustificare l’imbarbarimento quotidiano cui stiamo assistendo.

Un solo episodio. Siamo a Milano: un ragazzo senegalese di ventisei anni si ferma a un chiosco e ordina un panino. Il panino non gli piace, lo dice al proprietario del chiosco. Quello che fa? Tira fuori un coltello e lo conficca nel petto del giovane. Per fortuna, Germe Usmanesi è salvato.

Non è un’esagerazione o un modo melodrammatico di estremizzare un fatto singolo. Questi non sono più casi singoli o episodi isolati. Ne possiedo una lunga lista: ragazzi picchiati, accoltellati, insultati, umiliati, uccisi. Posso persino parlarvi della famiglia brianzola (padre, madre, figlio, nonno e nonna) che ha preso a bastonate un uomo di colore, padre di tre figli, per una disputa sul parcheggio, urlandogli «Tornatene al tuo paese».

Detti non detti di stampa

Sono racconti presi dalla viva voce delle vittime, non dai giornali o dalla televisione. I mezzi di comunicazione ci hanno raccontato in ogni dettaglio l’assassinio della povera Sanaa per opera del padre che non voleva che lei fosse com’era. Nel 2007 a Monza un uomo ha ucciso il figlio omosessuale con dodici colpi di revolver. Anche quel padre non voleva che il figlio fosse quel che era. Quanti di voi hanno saputo di quella notizia?

In occasione del terremoto di Haiti tante testate giornalistiche hanno ripetuto alla nausea: «Bande organizzate seminano terrore ad Haiti». Chi, come noi, ha frequentato quei posti, potrebbe leggere tra le righe perfino i cliché dei colonizzatori di ieri: gli haitiani sono nati per fare bene il male e per fare male il bene. Essi hanno l’eredità selvaggia o maledizione nera che viene dall’Africa, con tendenze al fratricidio, al crimine, al caos. Sono la prova che le rivoluzioni conducono al collasso e che le ex-colonie stavano molto meglio prima dell’indipendenza.

Un detto buddista dice che se discuti con uno stupido, dopo la discussione ti sentirai stupido. Stiamo tutti diventando stupidi. Siamo anestetizzati, immuni al dolore e all’indignazione. Opporsi alle migrazioni di popoli, immaginare un’Italia monoetnica è ostinata cecità. Rifiutare mentalmente gli stranieri perché sono diversi è stupidaggine mentale e morale. Organizzare culturalmente e politicamente la nuova convivenza è il minimo di una politica adeguata alla realtà.

Un letto e un tavolo per l’ospite

La regola vera dell’ospitalità è: «qualcuno» che accoglie «qualcun altro». Si è davanti a un atto di fiducia privo di garanzie sociali. Esso si apre da un lato al rischio e dall’altro al manifestarsi di una relazione che può diventare rivelazione.

La parabola dell’ospitalità lungo i secoli va dal divieto di chiedere il nome all’ospite fino al biglietto da visita borghese, a causa del quale l’annuncio delle proprie generalità precede l’incontro tra persone.

La paura ha occupato il posto dell’accettazione di un rischio aperto su due fronti, uno positivo e l’altro negativo. Poteva succedere anche un tempo di essere depredati, ma per converso poteva capitare pure di ospitare angeli. Potremmo dedurre, allora, che l’ospitalità più autentica ha luogo quando qualcuno non sa il nome di chi accoglie e, chi domanda, non sa il nome di chi lo deve ospitare. Ciò avveniva, lo ricorda Ivan Illich, quando l’ospitalità non era istituzionalizzata; quando in ogni casa cristiana c’erano un tavolo e un letto lasciati vuoti per chi poteva apparire.

La situazione appena descritta appare lontanissima, eppure, a guardarci bene, non è poi tanto remota. Anzi essa fa la sua comparsa in molti angoli della strada e su tanti gradini delle chiese. Quando qualcuno chiede l’elemosina, una mano anonima si tende verso un’altra mano senza nome. Un piccolo rischio vi è anche in quelle circostanze. Si può sbagliare, dando un pur minimo contributo a un’organizzazione sfruttatrice, si può essere ingannati da un falso bisogno. Tuttavia in questa virtualità anonima è racchiusa, in germe, la possibilità, quasi mai colta, di uno svelamento reciproco nel quale, offrire e chiedere un nome, riveste il denaro di abiti ospitali.

Il prossimo è morto con Dio

Un letto lasciato vuoto? Normalmente è la pienezza a essere indicata come segno positivo, l’augurio che si fa all’altro è, infatti, che la sua vita sia piena, tuttavia è soltanto il vuoto che può accogliere. Quando vi è il pieno, non c’è spazio per altro.

In un momento di profondo degrado politico e di smarrimento sociale come quello che stiamo vivendo in Italia, perché la tentazione dell’individualismo è così forte?

Pietro Barcellona ne dà una spiegazione. L’uomo di oggi è vittima di una malattia dell’anima, il ritorno emotivo alla fase in cui l’unica dimensione di Narciso è quell’autocontemplazione nello specchio che porta alla morte. In questa prospettiva scompare persino l’oggetto del desiderio e ci ritroviamo in una forma di autoipnosi, in una patologia collettiva. L’individuo cerca di farsi restituire la propria immagine come l’ha voluta costruire in assenza di relazionalità.

Personalmente sono convinto che non si possa uscire da questa situazione di smarrimento e di paura individuando gli altri come nemici da cui difendersi. Alla felicità non si può approdare, prescindendo dagli altri, anche perché la personalità di ogni persona si sviluppa solo nel riconoscimento della propria vocazione relazionale. In altre parole, la realizzazione di ciascuno di noi avviene nella reciprocità e, se promuovo gli altri, promuovo me stesso, se dono, rimango in un contesto di reciprocità progettuale.

Il filosofo Luigi Zoja, però, fa una constatazione seria, razionale, che mette in allarme l’umanità del nostro tempo. Il prossimo è morto. Affermazione annunziata come una conseguenza della prima: amerai Dio nel tuo prossimo, il prossimo è una parte di Dio. È stato, cioè, messo in atto un processo necrotico, lento ma inarrestabile. L’essere umano, dipendente dal denaro e dalla macchina, è incapace di accogliere l’amore. Non abbiamo più nessuno da amare – è la conclusione allarmante del filosofo – ciò che merita la nostra compassione e richiederebbe il nostro amore (la fame, le malattie devastanti, le stragi, le guerre, i danni climatici) è sempre più lontano e sempre più astratto, manca di profondità come gli schermi che ce lo comunicano.

A questo punto serve un salto rivoluzionario, lo stesso che propose Cristo con la parabola del samaritano: amare lo straniero. Uno scandalo, che portò Cristo prima all’abbandono e poi alla morte. Oggi si chiede un balzo morale simile, se possibile ancora più assoluto. Ecco la sfida.

Una disgregazione collettiva

Per comprendere davvero chi è diverso da noi occorre che ci facciamo carico della sua sorte, osservando da fuori le nostre leggi, la nostra costituzione, il nostro stato, come stranieri a nostra volta. Solo allora potremmo capire in che senso i nostri valori possono essere per lo straniero una prigione e i suoi possono essere per noi inaccettabili. Se questo riesce, scrive Barbara Spinelli, grazie allo straniero siamo portati a chiederci, per la prima volta, chi siamo, che cosa vogliamo e da dove veniamo. E per effetto di questa domanda, siamo portati a trasformarci.

In Italia il problema sociale e culturale, posto dall’immigrazione, è gonfiato ad arte, sia come quantità sia come gravità, usando, a scopo di potere, le peggiori pulsioni della discriminazione. Eppure la convivenza tra immigrati e italiani è migliore dell’immagine bombardata dagli strumenti della politica razzista, guidata dal parossismo distruttivo della Lega, che sta compiendo un’azione nefasta e pericolosa col suo processo di disgregazione sul piano emotivo, culturale, spirituale e mentale della sensibilità collettiva.

L’espansivo radicamento territoriale della Lega è ormai un dato incontrovertibile. Lo sfondamento della linea del Po è sintomo inequivocabile di un sentire sempre più diffuso nella società civile (forse, per più versi, ormai incivile). Per cinquant’anni l’egemonia della DC ha dato un aspetto moderato, centrista e perfino pluralista all’incontro tra ordine pubblico (non importa se apparente) e il tornaconto privato. Senza sollecitare quest’ultimo, effettivamente, in Italia è quasi impossibile essere politicamente vincenti. Crollata la DC, mutata fortemente la composizione e la mentalità della società, è venuto meno anche il moderatismo. Non va dimenticato che la Lega è nata e ha attecchito nelle vecchie roccaforti lombardovenete della DC. Ciò è avvenuto proprio perché essa ha secolarizzato, in modo rozzo, il volto peggiore del cattolicesimo italiano, il «mi sono fatto da solo» (constatazione aperta davanti a noi almeno da vent’anni, ma sempre colpevolmente ignorata dalla CEI). Il suo bacino di consenso tende a estendersi oltre la secolarizzazione del cattolicesimo e comincia a lucrare anche dalla secolarizzazione di quella «chiesa secolare» che fu il PCI.

La nuova discriminante

C’è una discriminante fondamentale che divide le persone. È quella che passa fra chi, nonostante tutto, crede alla loro dignità, s’impegna per gli oppressi, lotta per dar voce e spazio alle speranze più profonde e vere di ogni uomo e chi, invece, non crede più possibile questa trasformazione e si consegna, arrendendosi, a quelle forze che tendono, per il loro dominio, a ignorare le diverse situazioni ed esigenze dell’umanità.

Inutile nascondersi che per il primo caso siamo di fronte a una «fede» che accomuna credenti e non-credenti. Oggi non è tanto l’antitesi fede-ateismo che sta al centro dell’attenzione dei credenti, quanto quella tra fede e idolatria, un’antitesi che tocca il credente quanto l’ateo. L’opera di «liberare i prigionieri» (per usare le parole di Gesù di Nazareth) è la scelta più urgente e foriera di un linguaggio nuovo.

A lungo termine le partite politiche si vincono sul piano etico-culturale (nel senso più ampio del termine), anche se nell’Italia della telepolitica non è facile vederlo. Questo lento sgretolamento ha avuto i suoi effetti. Quando i modi di pensare e di comportarsi della gente sono sempre più simili, non vi sono molte speranze che scatti la molla della differenza politica. Affermare che bisogna modificare i modi di pensare e di vivere è un’espressione a tal punto generica da essere politicamente insignificante.

La discriminante diventa allora la capacità di cogliere la luce che nasce dal buio. Una luce che può apparire solo a chi sa assumere fino in fondo la contraddizione, rifiutando di sfuggirla: condizione per farla parlare. Il cielo, il mondo più vero, non si vede, ma una luce lo annuncia. Questa capacità di far scaturire la luce è un compito che oggi, di fronte a una disperazione sempre più generalizzata, perché frutto di una resa incondizionata ai «poteri» che ci dominano, diventa urgente per continuare a resistere.