Se la fragilità è la nostra condizione, la forza delle armi non sarà il nostro baluardo

di Stoppiglia Giuseppe

Per difendere la vita degli uomini

«Quando un popolo è indifferente,
allora sorgono le dittature
e l’umanità diventa un gregge solo,
appena una turba senza volto;
allora il bene è uguale al male, il sacro al profano;
e l’amore unicamente piacere, un male il sacrificio,
un peso la libertà e la ricerca».
[Davide M. Turoldo]

«Mio Dio, concedici la serenità
di poter cambiare le cose che non possiamo cambiare,
il coraggio di cambiare le cose che possiamo cambiare,
e la saggezza di riconoscere la differenza».
[G. Bateson, Verso un’ecologia della mente]

Ad una certa età, nella vita, le persone cercano dei momenti di sogno, di riposo, di serenità: sono le tre spiagge della musica, dei colori e della favola (o della parabola). Io tendo alla terza spiaggia: mi piacciono molto le favole, perché sprigionano il senso del desiderio, del sogno, dell’inedito, fanno pensare oltre…

Donami le tue paure

Un vecchio monaco, un giorno, mentre passeggia lungo un sentiero, raggiunge un bivio dove è indicato Casa della felicità. Guardando un po’ curioso e un po’ sospettoso, vede una casetta sul fondo, ma non ci va. Torna indietro e finge dentro di sé di non aver bisogno di questo. Il giorno dopo rifà la stessa strada e quando arriva all’indicazione, la guarda con insistenza, ma non la segue.
All’improvviso, vede seduto sul crocicchio tra la stradina ed il sentiero un mendicante. Sorpreso, si fruga nelle tasche per cercare se ha qualcosa da donargli, ma quello gli dice: «Non ti preoccupare, tieni pure quello che hai, siediti un momento qui con me; da te ho bisogno solo di una cosa: donami le tue paure».
È vero, viviamo in un mondo nel quale impera sempre più il non senso dell’esistenza e l’incapacità di progettare il futuro. Vorrei partire da questa drammatica affermazione di San Paolo: «Quando si dirà pace e sicurezza, allora d’improvviso li colpirà la rovina» (1 Ts. 5,3).

Quel che cerchiamo è…

Non possiamo denigrare la tendenza propria dell’uomo, come singolo e come collettività, a raggiungere le condizioni della sicurezza. Siamo, nella nostra vita, sempre tallonati da una precarietà che è poi la radice del nostro spavento profondo.
Appena prendiamo coscienza della fragilità delle cose e della nostra fragilità fra le cose, non possiamo non sentire al nostro fianco il precipizio del nulla e non averne paura. In questo senso siamo figli della paura.
Cercare sicurezza allora vuol dire cercare il seno materno, cercare l’amore terreno, cercare la fecondità nei figli – questa parvente immortalità che è la prosecuzione della specie – cercare al livello più alto, i valori della storia… In ogni modo non possiamo far fronte alla paura che abbiamo in seno come una tentazione permanente, senza trovare consistenza in una rete di rapporti che siano, per noi, come una cintura di sicurezza.

Sicurezza e precarietà

Ma ogni sicurezza è ambigua. Essa può essere ricercata mentendo a noi stessi, eliminando dalla nostra prospettiva ogni indizio di precarietà, nascondendo ai nostri occhi i segni della nostra relatività e quindi simulando in un certo modo, a noi stessi e agli altri, una specie di onnipotenza che, essendo menzognera, ci espone ai pericoli e ci fa artefici di iniquità.
Gli antichi avevano condannato nel mito di Prometeo la tentazione dell’uomo di varcare i confini della propria condizione. Prometeo che rapì il fuoco agli dei, fu poi incatenato alla roccia perché fosse monito perenne: la tracotanza è punita dal cielo.
La religione ha come sua antitesi l’atteggiamento prometeico dell’uomo. L’uomo non conosce confini, la religione li stabilisce. Questo conflitto tra una sapienza religiosa che consacra i limiti dell’uomo, li dichiara intangibili e la spinta dell’uomo che mira ad abolirli in una specie di indefinita signoria sul creato, lo proviamo spesso. Il problema non si può risolvere in maniera sbrigativa, anzi, non si può nemmeno risolvere. I confini che l’uomo deve rispettare sono quelli posti dalla coscienza morale e non quelli posti dai pregiudizi e dalle tradizioni in cui si calcifica il privilegio, l’ignoranza e, alla fine, la stessa paura dell’esistere.
Penso che una condizione di saggezza per ciascuno di noi sia di non perdere di vista i due versanti del nostro essere. C’è un versante aperto al mondo, alla storia, in cui noi troviamo il senso della creatività e della laboriosità, e l’altro, notturno, quello in cui sentiamo il nostro limite, in cui sappiamo che il senso della nostra vita non è nella tracotante affermazione di noi, ma è in un rapporto d’amore, di consolazione, di soccorso verso tutte le creature che sperimentano su di sé i limiti della condizione umana.
Spesso ci dimentichiamo, a causa dell’inganno di cui siamo vittime e artefici, che attorno a noi c’è un’infinita moltitudine che della vita attraversa solo l’ombra. Tutti i poveri, i malati, coloro che declinano nell’età, coloro che in qualche modo sono menomati, che vivono soltanto col rimpianto di un amore passato.

Cosa ci ha insegnato l’11 settembre

Dalla caduta del muro di Berlino in poi, l’Occidente ha avuto una percezione fondamentalmente ottimistica di se stesso e del mondo. C’erano sì crisi, guerre locali, attentati, ma l’economia tirava, l’innovazione tecnologica procedeva a ritmi serrati, la scienza perveniva a scoperte di grande rilievo.
C’è voluto l’11 settembre perché ci fossero letteralmente buttate in faccia la fragilità del nostro mondo, l’inquietudine e l’importanza di quello musulmano. Così quel mostruoso attentato è diventato l’evento emblematico della precarietà in cui viviamo. È passato più di un anno da quel giorno, che ha prodotto uno choc planetario; la vita, com’è giusto, ha ripreso il suo corso, ma la consapevolezza della fragilità è quasi svanita nel nulla. L’unico rischio incombente appare quello del terrorismo, o forse addirittura dell’Islam, europeo e internazionale, considerato il nuovo “nemico” della democrazia che minaccia la nostra sicurezza. E si stanno compiendo delle scelte umane che ci separano dal principio dell’amore, diventando fonte di tracotanza, ricerca di sicurezza nella forza.

Terra santa: una tragica illusione

La Terra santa sta diventando una terra maledetta. Ci sono due popoli prigionieri della paura, vittime di un cerchio di violenza che li chiude nella diffidenza e nell’odio reciproci. È scattata una guerra per la sopravvivenza, la situazione più tremenda, perché allora tutto diventa lecito, visto che tutto si mette in gioco, il presente come l’avvenire.
Ormai la parola è passata a due estremismi che si alimentano a vicenda in una spirale perversa di vendette e di rappresaglie che crescono su se stesse senza fine. Sharon ha messo in atto una prova di forza con l’obiettivo di decapitare la classe dirigente palestinese, di dimostrare l’inconsistenza della solidarietà araba e soprattutto di porre il nemico nella condizione di non nuocere più. Ha dichiarato, è vero, che l’intervento militare mirava a demolire le infrastrutture del terrorismo, ma nella realtà l’esercito ha messo a ferro e fuoco città palestinesi distruggendo un po’ tutto.
I palestinesi reagiscono accentuando la “criminale strategia degli attentati suicidi contro civili israeliani”, rafforzando così le tendenze estremistiche presenti in Israele, giustificandole agli occhi della maggioranza di questo popolo e mettendo a tacere le voci contrarie, o annullandone la credibilità.
Tragica illusione. E ancor più quella di Sharon e dei fondamentalisti israeliani che sognano il “grande Israele”. Perché è impossibile rendere innocuo un popolo disposto a morire pur di non sottomettersi. È cecità imboccare una via che sarà sempre disseminata di kamikaze.

Missione USA: liberare il mondo
dal maligno

Dopo l’11 settembre c’è stato un vertiginoso e irrazionale cambiamento nel modo con cui gli Stati Uniti percepiscono, ma soprattutto attuano, il loro rapporto col mondo. Si vivono come nazione privilegiata ma anche messa alla prova da Dio, per adempiere ad un compito che riguarda tutte le nazioni. Non a caso questo nuovo corso della politica americana è stato fondato e proclamato non al Congresso, ma in Cattedrale, e precisamente alla National Cathedral di Washington, il 14 settembre 2001, nel corso della “giornata di preghiera e commemorazione” indetta con un solenne decreto di Bush, in ricordo delle vittime dell’11 settembre.
In quell’occasione, dal pulpito, Bush ha pronunciato un sermone preparatagli dal suo consigliere, il biblista fondamentalista Michael Gerson, in cui, nel dichiarare la sua “guerra infinita” al mondo cattivo, ha detto: «La nostra responsabilità verso la storia è chiara: noi dobbiamo rispondere a questi attacchi e liberare il mondo dal maligno… L’impegno preso dai nostri padri è divenuto l’appello del tempo presente». Ed impadronendosi della lettera di San Paolo ai Romani, ha aggiunto: «Noi abbiamo ricevuto da Dio questa assicurazione: né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né i poteri di questo mondo, né le cose presenti, né quelle future, né le altezze o le profondità ci possono separare dall’amore di Dio. Che egli guidi il nostro Paese per sempre, che Dio benedica l’America».

Il mito: siamo tutti americani?

L’aspetto grave di questo mito della elezione da parte di Dio, sta nel fatto che quando si tratta di un popolo piccolo, povero, indifeso, la sua elezione non fa problema, anzi, la coscienza religiosa avverte che è stato scelto senza suo merito come oggetto della predilezione di Dio; ma è molto diverso quando il popolo eletto, o che si ritiene tale, è il più potente, il più ricco, il più armato e più contento di sé di tutta la Terra.
Per i poveri questa pretesa investitura è una catastrofe. Questo mito di una missione americana universale non è rimasto circoscritto nei confini degli Stati Uniti ma si è propagato nel mondo, come è accaduto in Europa («siamo tutti americani»), dove la stessa cultura politica ha teorizzato l’esistenza di una missione degli Stati Uniti a «guidare la storia», senza essere vincolati dal diritto e dalle convenzioni internazionali che legano gli altri Stati, facendo così degli Stati Uniti l’incarnazione dello Spirito assoluto di Hegel.

Se cresce l’esercito della paura

Quando l’uomo, giunto alla sponda ultima della sua menzogna, sarà assolutamente sicuro, avverrà il tracollo finale. Ad una crescita di sicurezza corrisponde una crescita di fragilità e di rischio di annientamento.
La tracotanza dell’uomo sparge rovina e morte. Lo sappiamo, è storia che rientra nell’arco della nostra memoria, terribile lezione per tutti. È possibile uscirne? Sì!
Nella fede possiamo trovare la legittimazione più forte, anzi una aggiunta alla speranza storica che spesso, se si basa soltanto su ragioni sperimentali, consuma se stessa strada facendo. Quanti uomini di grande speranza, dopo aver lottato per cambiare il mondo, si sono stancati di fronte all’evidenza dell’impossibilità di modificarlo!
Cresce l’esercito della paura e crescerà sempre più. In questo esercito ci sono sia i delusi delle ideologie rivoluzionarie, sia i fautori del sentimento religioso. Dobbiamo opporci a questo partito della notte perché noi siamo figli del giorno.
Siamo svegli per impegnarci al cambiamento del mondo secondo le misure che splendono nell’intimo della coscienza e che si svolgono come un progetto potenziale dinanzi ai nostri occhi, anno dopo anno. A condizione, però, che non siamo vittime di quella ideologia della sicurezza che fa affidamento sulla forza. I figli della luce sono quelli che conservano le ragioni della speranza.

Pove del Grappa, novembre 2002