Se la povertà è un delitto

di Stoppiglia Giuseppe

«Speciale è solo vivere,
guardarsi di sera il palmo di mano
e sapere che domani
torna fresco di nuovo,
che il sarto della notte cuce pelle,
rammenda calli, rabbercia gli strappi
e sgonfia la fatica».
(Erri de Luca)

«La solidarietà non è un sogno nobile,
ma una reale necessità».
(E. Kant)

«Giorni fa stavo andando alla porta Borovickaja: vicino vi sedeva un vecchio, un accattone sciancato, avvolto in cenci fino alle orecchie. Estrassi il borsellino per dargli qualcosa. In quel momento dal colle del Cremlino accorse un giovane gagliardo, dal viso rubizzo, un granatiere col tulup d’ordinanza. Il mendico, visto il soldato, balzò in piedi impaurito e corse zoppicando giù verso il giardino di Alessandro.

Il granatiere prese a inseguirlo, ma si fermò senza raggiungerlo e si mise a rimproverare l’accattone perché non dava retta ai divieti e sedeva presso la porta. Aspettai là il granatiere. Quando giunse alla mia stessa altezza, gli chiesi se sapesse leggere e scrivere. «Sì, e allora?». «Hai letto il vangelo?». «L’ho letto». «E hai letto colui che darà da mangiare all’affamato?». E gli riferii questo passo.

Lo conosceva e mi ascoltò. E vedevo che era turbato. Due passanti si fermarono ad ascoltare. Era evidente che il granatiere era addolorato della sensazione di apparire dalla parte del torto, nel compiere in modo eccellente il suo dovere, scacciando il popolo da dove gli avevano ordinato di scacciarlo.

Era turbato e palesemente alla ricerca di pretesti. Improvvisamente, nei suoi intelligenti occhi neri balzò una luce; mi si affiancò come per congedarsi disse: «E tu hai letto il regolamento militare?». Dissi che non l’avevo letto. «Allora non parlare», replicò scuotendo trionfalmente la testa e, avviluppatosi nel tulup, si diresse con baldanza verso il suo posto di vedetta. Questa fu l’unica persona in tutta la mia vita che abbia risposto in modo rigorosamente logico all’eterna domanda, che nel nostro sociale si presentava davanti a me e si presenta davanti a ogni uomo che si definisca cristiano» (Lev Tolstoj, La mia fede).

Il rimosso ritorna

Sottrarre la povertà allo spettacolo quotidiano, rimuoverla dalla vista, espellerla dalla percezione è l’obiettivo crudele di questo nostro sistema stolto e ipocrita.

Ciò che non si vede non esiste, o esiste solo come sentito dire, come statistica, dove i numeri hanno il compito di cancellare il volto dei poveri. Renderci immuni dalla presenza di una povertà silenziosa, densa come la nebbia, che in modo impercettibile ci tocca da ogni parte, può passare inosservata solo a colpi di rimozione. Il rimosso, però, ritorna.

Non ritorna come senso di colpa, da cui è facile sgravarsi con un gesto di elemosina, ma con l’atrofizzazione del nostro cuore che, per non percepire e non vedere, deve procedere a colpi di amputazione tali da diventare alla fine un povero cuore, un cuore mutilato.

La povertà c’è. Non entrarvi in contatto significa inventarsi un mondo diverso da quello che c’è, collocandoci in uno spazio di falsificazione e di insensibilità.

Il tentativo di difendersi non solo dalla povertà, ma anche dalla sua vista, è un inganno, l’inganno di un giorno. Fondamentale diventa, perciò, rompere il meccanismo che porta all’identificazione del «nemico» in carne e ossa, in chi vive una condizione di vita precaria nella nostra società. Nemico facilmente contrastabile e perseguibile perché debole e ricattabile.

Temo che in Italia non finirà presto questa ondata di vero e proprio razzismo che ha avvelenato l’immaginario collettivo, che incolpa di ogni male sul territorio nazionale lo straniero privo di documenti italiani, criminalizzando la sua condizione come aggravante di reato.

Primo Levi in Se questo è un uomo afferma: «La convinzione che lo straniero sia nemico giace in fondo agli animi come un’infezione latente». Siamo prevenuti. Lo straniero è una figura che preoccupa, più che rassicurare. E questo da sempre.

Verrebbe da pensare che con l’evoluzione delle società, con il progresso della comunicazione, lo straniero potrebbe essere accettato più facilmente. Non è così. La paura, la vecchia paura primitiva è ancora qui, ad accompagnarci e a ossessionarci.

Certamente la convivenza con altri popoli, altre culture e altre religioni genera inevitabilmente dei problemi, ma la risposta non può essere quella di mostrare i muscoli e i manganelli nei confronti dello straniero (comportamento che soddisfa e stimola le tendenze autoritarie e punitive nei cittadini), o l’applicazione di nuove irragionevoli leggi (vedi il «pacchetto sicurezza» proposto dal governo italiano) sull’immigrazione cosiddetta «clandestina».

I mezzi d’informazione, giornali e tv, offrono, poi, un’immagine degli stranieri essenzialmente negativa. Si affidano a stereotipi che ritraggono gli immigrati come criminali, clandestini e ladri di posti di lavoro, senza mai dimostrare tutto questo. La realtà inconfutabile è che la nostra economia ha bisogno di questi lavoratori, da sfruttare a basso costo, ma nel medesimo tempo li rifiuta come esseri umani.

Una società bene ordinata – per usare un’espressione di Hannah Arendt – non è quella in cui non ci sono conflitti, ma quella in cui ci sono regole per dirimerli. In questa prospettiva consenso e conflitto possono e devono coesistere. Una società crea tanti più conflitti quanto più èàcomplessa, perciò richiede un maggior consenso sulle regole procedurali.

Il criterio della giustizia non è la legge, ma…

La legge deve essere tutela dello sconosciuto, del diritto di chi è senza diritto, forza dei deboli, protezione di chi non ha relazioni che lo proteggono. Il barbone senza casa e famiglia, l’immigrato senza documenti, se non è aiutato dalle istituzioni sociali, è spinto giù dal ciglio del consorzio umano, è eliminato. Di lui dobbiamo chiederci «se questo è un uomo». Lo è, ma non è riconosciuto come tale da una società che gli è nemica, fino alla violenza. Nella mobilità attuale dei popoli, per necessità o per scelta, è diventato assurdo legare la cittadinanza alla nazionalità e non alla permanenza sul territorio. L’immigrato che vive e lavora in Italia è più cittadino, coi relativi diritti e doveri, dell’italiano emigrato e ormai residente all’estero. Quest’ultimo vota, senza di fatto partecipare alla nostra comunità politica, l’immigrato, invece, che ne è partecipe, non vota.

Don Milani in L’obbedienza non è più una virtù scriveva: «I miei ragazzi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (quando cioè sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (che sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. Si migliorano le leggi col voto, lo sciopero, la parola, l’esempio. Quando è l’ora non c’è scuola più grande che violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri».

Il criterio di scelta è molto chiaro. O la legge dà la forza al debole o fa l’interesse del più forte. Non esiste il relativismo degli interessi per cui una legge è giusta o ingiusta secondo chi la guarda. Quando è chiaro che la legge è ingiusta si obbedisce alla giustizia più che alla legge, a Dio prima che agli uomini. I discepoli di Gesù sanno che Dio ama i poveri e gli ultimi non perché sono buoni, ma perché sono poveri e ultimi. Li ama anche quando sono cattivi; non è venuto, infatti, per chi si crede giusto, ma per i peccatori.

Se a Orlando la ragione, a noi l’anima…

C’è in atto una crescente volgarizzazione della vita. Siamo dentro a un grandioso processo di volgarizzazione che nasce proprio da questo guasto che la mentalità del consumo individualista ha introdotto all’interno dell’uomo. Il sistema di mercato e di consumo ha fatto il deserto all’interno dell’uomo. Sono state recise le radici dell’anima nella persona, è avvenuto il furto dell’anima come lo scrive Pietro Barcellona.

Il consumismo è diventato ormai un delirio distruttivo. Per avere voglia di consumare, e dunque di acquistare, bisogna essere in uno stato di insoddisfazione, essere preda di una logica di desiderio che ci fa sentire, prima di tutto, mancanti di qualcosa. Per fare in modo che un individuo si trovi in un simile stato d’animo, occorre privarlo dei suoi valori spirituali e morali che gli permetterebbero di avere un mondo interiore tanto ricco da non avere bisogno in permanenza di acquistare per sentirsi soddisfatto. Il presidente poeta Vaclav Havel ha affermato: «Ciò che è tragico, nell’uomo moderno, non è tanto il fatto che egli ignori sempre di più il senso della sua vita, ma che ciò lo disturbi sempre meno».

Per ottenere un cambio di rotta c’è bisogno di una spiritualità che salga «dal basso». Devono entrare nella politica le parole della spiritualità. La spiritualità non è la declinazione buonista del religioso, ma è fondamentalmente «interiorità», come afferma Hannah Arendt. È il mondo interiore dell’essere umano. Questo mondo interiore è un mondo vasto – più vasto del mondo esterno – e tendenzialmente infinito. «Per quanto lontano tu possa andare, non potrai mai raggiungere i confini della tua anima», dice il poeta.

È in questa dimensione dell’essere che possiamo trovare una forte e profonda carica antagonistica nei confronti dell’attuale organizzazione della vita, l’ultima frontiera, direi, della resistenza nei confronti dell’aggressione proveniente dal mondo esterno. Il mondo «di fuori» è un mondo nemico, perciò, stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo. Bisogna evocare il soffio dello spirito per disordinare il mondo.

Si potrebbe obiettare che il mondo è abbastanza disordinato, non c’è certamente bisogno di altro disordine. No, l’attuale disordine è conseguenza dell’ordine che ci opprime, non è quindi un disordine spontaneo. È un ordine che dall’alto provoca questo disordine, quindi c’è bisogno di disordinare il mondo.

Guardare oltre il modello attuale

A coloro che dicono di essere tolleranti, laici, antirazzisti, multietnici, interreligiosi, aperti all’altro, verrebbe da chiedere loro: ma quale altro?

L’immigrato clandestino buttato sulle nostre spiagge come un detrito non umano è lo stesso altro del ricco benestante che sale sul suo yacht per andare a fare un giro turistico? Hanno in comune lo stesso mare, ma chiaramente io sono per l’uno contro l’altro. In questo, la predicazione cristiana è spesso generica e astratta. Occorre ripartire dal comando di Gesù: «Ricevete lo Spirito», un patrimonio inutilizzato.

È giunto il tempo, e la crisi finanziaria ne è un segno evidente, di liberarci da ciò che abbiamo inutilmente accumulato, per diventare ciò che siamo veramente, con la consapevolezza che non si dovrà cercare il valore del proprio agire in un risultato immediato, in una soluzione politica a breve termine.

Se qualche rinnovamento è possibile, si deve guardare lontano, ai tempi lunghi dopo il fallimento di questo modello di società. Bisogna lavorare a lunga scadenza, senza illusioni, senza false speranze, né scorciatoie, né espedienti tattici. Per usare la formula di Marco Revelli, «sapendo il perché, senza più chiedersi quando».

Non solo la mia è la voce dell’inevidenza, ma è inevidente. Suonare la tromba? Alzare la voce? Montare progetti? Sarà sempre pochissima cosa nel frastuono generale e nel miasma sociale. Non significa che non conviene fare niente. Significa che il poco che faccio è per una solidarietà umana e cristiana della quale io ho bisogno più di ogni altro. Io sono parte del continente umano, non sono un’isola. Che salva (e mi salva) è più quello che sono di quello che faccio. È dire, con gli apostoli: «Andiamo e moriamo anche noi con Lui».