Diritti dell’uomo e verità trasversali

di Stoppiglia Giuseppe

Il cammino graduale della compassione

«Se alla violenza risponde

sempre la violenza,

potrà mai cessare la violenza?»

Catama Budda

«Noi non sappiamo risolvere il

problema del male, ma non per

questo siamo dispensati dall’occuparci

dei mali,

Alla fine dei giorni,

il male sarà sconfitto dall’uno;

in tempi storici, i mali devono essere

sconfitti ad uno ad uno».

Abraham Heschel

Nelle vicinanze di S. Petronio m’imbattei in una donna vestita di nero, prona a terra, con un fazzoletto nero sul capo. Immobile, a faccia in giù, come in preda a malore. La gente sciamava indifferente, distratta, impassibile: finché, dopo essermi curvato su di lei e averla scossa inutilmente senza averne risposta, non richiamai l’attenzione di una coppietta giovane (sono spesso i meglio disposti) che telefonò prontamente all’ospedale mentre io cercavo di soccorrere la poveretta e le infilavo in tasca tutto quello che potevo.

«Non si dia la pena di farlo» – mi esortò un passante scuotendo la testa – «è tutta scena, sa. Lo fanno per impietosire: è accattonaggio professionale, non sono tanto nel bisogno; non c’è da sorprendersi se hanno il conto in banca o sono proprietari di appartamenti. La polizia li conosce: li tollera perché siamo a Bologna. E poi, meglio accattoni che delinquenti. Lasciamoli campare finché non fanno male a nessuno. Non si faccia carpire la sua buona fede. Si limiti ad una piccola elemosina e sappia difendersi dalle estorsioni, non sono solo le zingare a praticarle».

Fra il negare a chi è nel bisogno vero e il dare a chi forse bisogno non ha, che cosa sceglieranno i miei quarantasei lettori?

Il debole va spazzato via

«Tu, vecchio anarchico umanitario e non violento» – sorride Guido – «dovresti continuare a credere, come diceva Plinio il Vecchio, che il Divino per l’uomo, creatura mortale, è giovare agli altri mortali. Più che fede morale, questo è convincimento razionale, persuasione profonda che più si cerca se stessi, più ci si chiude in se stessi, nel proprio narcisismo e più si è infelici ed insoddisfatti. Credo che solo donando si riceva, solo amando si è amati».

Il suo entusiasmo è contagioso, il suo ottimismo mi sorprende e mi scuote l’anima. «Ma la nostra civiltà è mostruosa, è giunta a negare questa legge in tutte le sue forme e i suoi corollari. Nel cuore del mondo, dietro la facciata ipocrita, puoi leggere ancora le parole di Hitler: Il debole va spazzato via».

Guido non demorde ed incalza: «Ogni persona sensibile conosce il tunnel dell’angoscia, della crisi esistenziale, e credo che la miglior medicina dell’anima sia proprio quella di uscire dalla prigione dell’io e occuparsi degli altri. Per far questo non c’è bisogno di preti, di litanie, di santini e di processioni, non c’è bisogno di farsi complici di un apparato di potere che provoca e rafforza, con la sua mondanità, il più intransigente ateismo, Basta non dimenticare quello che noi stessi abbiamo ricevuto».

Ti ringrazio, ignoto Iddio, per quello che mi hai tolto e per quello che mi hai dato: il tesoro dell’amicizia, dell’ospitalità, della condivisione, che tu hai profuso nel mio cammino incerto d’indegno peccatore. Insegnando alla mia superba fierezza, l’umiltà dignitosa del povero invitato alla mensa del ricco. E la silenziosa pena del lavoro mal apprezzato e non retribuito.

Depositari della verità

Viviamo in un contesto dove si fronteggiano risorgenti fondamentalismi e soggettivismi estremi che si alimentano a vicenda: gli uni, sicuri di tenere in pugno la verità, provocano la reazione degli altri che parlano di opinioni individuali in quanto ciascuno ha la sua verità, mantenendo l’opposizione di fratelli sospetti.

Sono, infatti, entrambe posizioni chiuse e insidiose: la prima con la sua pretesa di possedere la verità in esclusiva, non ha nulla da imparare da nessuno e ha storicamente prodotto totalitarismi e intolleranza, quindi violenza; la seconda, arroccata nel suo particolarismo, è di fatto indifferente alle convinzioni altrui e va esprimendo un’anarchia di valori che facilita il lassismo e ostacola la scoperta di ideali comuni.

Ed ecco l’insidia: per ragioni opposte, ma convergenti, sgretolano le fondamenta di un’effettiva convivenza tra diversi, possibile soltanto sulla base di valori condivisi, anche se legittimati con visioni differenti dell’uomo.

Per sfuggire al dilemma tragico tra fondamentalismo e soggettivismo, credo occorra seguire un atteggiamento aperto verso la verità, dimensione vitale da esprimere in formulazioni altrettanto aperte, quindi provvisorie, in grado di assumere gli apporti nuovi, le acquisizioni via via emergenti dall’esperienza umana.

Una ricerca paziente

Penso, perciò, che la comprensione della verità delle cose, della persona, della vita, sia un cammino, una ricerca paziente, umile, ostinata, che continua di generazione in generazione.

È questa la via per raggiungere alcune verità universali come i diritti dell’uomo, da considerare non quali mutevoli opinioni, bensì ideali da trasformare in convinzioni stabili, che orientano le scelte personali e collettive affinché l’altro sia sempre riconosciuto persona e mai ridotto a oggetto su cui esercitare violenza.

In questa linea la verità si presenta come realtà viva, non una cosa inerte, bloccata in una formula definitiva. Si scopre per intuizione dentro un’esperienza e si approfondisce e purifica in un dialogo tra le diverse concezioni della vita, dialogo tanto più urgente quanto più sono nuovi certi problemi come quelli legati alla genetica, all’incontro tra culture, al dialogo tra religioni.

È una dimensione trasversale che riguarda tutte le espressioni dell’umano: anche la giustizia, anche il valore sommo dell’amore possono essere veri o falsi e vanno verificati nel confronto.

La verità non è un privilegio

Essendo io un prete, formato per dieci anni in seminario, dove si affermava e si insegnava che l’ordinazione ci faceva antologicamente diversi dagli altri, ho avvertito la necessità di un cammino per ricostruire un mio pensiero e una mia prassi che fossero liberazione dalla cultura del privilegio della casta sacerdotale, dentro una chiesa, istituzione totale. Chiesa che chiede di continuo libertà per sé, come istituzione monarchica, ma che difficilmente ammette spazi di libertà, autonomia, diversità al suo interno.

La richiesta di libertà da parte della chiesa, nella linea della cultura del privilegio, è frutto della sfiducia e del poco rispetto della realtà complessa e pluralista dentro la quale la chiesa è posta.

Si produce così una specie di bipolarismo o contrapposizione, in cui la posizione della chiesa è il criterio di verità e validità su cui il resto della realtà viene valutato.

Se sono convinto che la mia confessione di fede è depositaria della verità, allora le altre confessioni, le altre religioni e non religioni sono false e non possono essere che tollerate in nome della laicità dello Stato, che è per principio (e con il consenso di tutti) senza religione.

Ciò a cui bisogna dapprima rinunciare, è ad un rapporto possessivo della realtà; dire: non io ho la verità, ma spero di essere nella verità.

Se le convinzioni

diventano opinioni

Secondo passo: non posso sperare di essere io stesso nella verità senza sperare e senza credere che anche voi, che non credete ciò in cui io credo, siate, in un modo che non so, nella verità. E questo modo io non posso saperlo in virtù del carattere limitato di ogni comprensione.

Quest’altra parte della verità non posso che presentirla, riconoscerla lateralmente, di sbieco in qualche modo, senza poter paragonare dal di fuori la credenza dell’altro e la mia.

Il modo peggiore d’incontrare l’altro è di annullare la sua intenzione di verità contemporaneamente alla mia. Non esistono convinzioni, ma opinioni così differenti che divengono indifferenti. Ogni dialogo, allora, sparisce perché non c’è più confronto, e non c’è più confronto là dove non c’è più convinzione.

So che questo paradosso è difficile da considerare. Ma non è questa la verità nella carità, dono eccellente dello Spirito? Lo Spirito è uno, ma nessuno sa donde soffia il vento.

La miseria non è nel destino

ma nel giudizio su di noi

La televisione sta rimandando immagini di carestia, di povertà, di miseria, di case distrutte, di corpi straziati in una regione del Sudan in Africa.

Annullo la voce del cronista e sovrappongo le note della Quinta di Beethoven. Il primo movimento si apre con l’incalzare dei colpi del destino: così avrebbe spiegato lo stesso Beethoven. Ma in queste prime battute non ci si interroga solo su chi bussa alla nostra porta. È la nostra identità a essere in gioco: chi siamo, noi?

La televisione rimanda immagini di morte, di atrocità. Chi siamo noi? Quale il destino che ci andiamo costruendo?

Scena da un villaggio di profughi: un bambino si aggrappa al biberon. È tra le braccia di un altro bimbo, poco più grande, che si china con un sorriso indefinibile, stanco e gioioso allo stesso tempo, a dargli un bacio sulla guancia.

Continuo ad ascoltare la Quinta. Al di là del buio, la luce.

Oltre il volto della violenza, quella dell’amore.

Credere in questo, per continuare a vivere.

Quel bambino lo sa.

Pove del Grappa, novembre 1999

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