Dopo l’omologazione della Torre. L’abbraccio della comprensione

di Stoppiglia Giuseppe

“Dio chi è? Prima importa sapere se Dio c’è.
I poveri chi sono? Prima importa sapere se ci sono.
Non importa che vi spieghi chi sono i poveri,
se non ci siamo ancora accorti che i poveri ci sono.
Sembra molto comodo scordare che Dio esiste,
ugualmente è comodo scordare che i poveri esistono.
…Se Dio c’è, la mia vita non può essere quella che conduco;
se ci sono i poveri, la mia vita non può essere la vita che conduco”.
[Primo Mazzolari]



Piccola senza nome
Ci seguiva da un pezzo con un passo deciso e mi si affiancò per un tratto con aria spavalda, senza dire nulla. Così piccola e graziosa, in calzoncini e maglietta, di sei o sette anni, a giudicare dalla statura: figura esile, ma ben proporzionata.
“Toh, ti segue come un cagnolino” – dissero gli altri. “Come ti chiami?” – le chiesi, con la sensazione vagamente angosciante che quella bambina sola per le strade di Rio de Janeiro poteva aver bisogno di protezione e tenerezza.
“Eu nao tenho nome” – fu la sua stupefacente risposta, cioè “sono senza nome”. Non potei trattenermi dal sollevarla tra le mie braccia. “Cosa posso fare per te?”. “Lasciami andare” – disse; e la rimisi a terra.
Ci sorpassò subito con una certa ostentazione ed al primo incrocio svoltò a destra. Non era purtroppo il nostro percorso (dovevamo raggiungere il mezzo pubblico programmato) ed io mi volsi indietro a guardarla: si era fermata, come aspettando. La salutai a distanza: “Até logo, piccola senza nome”. Lei alzò il braccio destro e restò a farmi cenno d’addio con la mano finché non scomparimmo l’uno alla vista dell’altra. Per tutta la giornata rimasi pensoso, con quell’immagine fitta nel cuore: un’esile figuretta, tutta sola per le strade di Rio de Janeiro. Gli altri mi chiedevano: “Pensi ancora alla piccola senza nome? Avresti voluto portarla con te come un gattino randagio, non è vero?”. Mio Dio, che fa una bambina, dall’apparente età di sei anni, tutta sola, per le strade di una grande città?

Dolcezza e simpatia
Era una notte di luna, calda, sul mare. Ero uscito dalla stanza con un asciugamano. Avevo voglia di entrare in acqua: era così invitante la distesa calma, il silenzio… Ma mi accorsi di non essere solo con la mia insonnia: una coppia giovane tubava sulla terrazza. Mi vennero accanto: Elvira e Renzo. Non so più cosa ci dicemmo. L’indomani mi cercarono, volevano portarmi in pizzeria, da qualche parte. Ci scambiammo gli indirizzi. E piovvero le cartoline illustrate. Non risposi per il solito vizio di non trascrivere subito sull’agenda. Finché giunse pressante, un fax che mi obbligò perentoriamente a scovare tra le carte. Volevano essere informati, rassicurati… “perché dolcezza, simpatia e pazzia non si possono dimenticare”.

L’intimità, nucleo della libertà
Se chiamiamo intimo ciò che si nega all’esterno per concederlo solo a chi vogliamo far entrare nel nostro segreto profondo e spesso ignoto a noi stessi, allora il pudore, che tutela la nostra intimità, difende pure la nostra libertà. La protegge in quel nucleo dove la nostra identità personale decide che relazione instaurare con l’altro. Il pudore allora non è una faccenda di vestiti o di abbigliamento intimo, ma una sorta di corpo di guardia che decide il grado di apertura e di chiusura verso l’altro. Si può infatti essere nudi senza nulla concedere, senza aprire all’altro neppure una fessura della propria anima.
Siccome agli altri siamo irrimediabilmente esposti, e dallo sguardo degli altri irrimediabilmente oggettivati, il pudore è lo sforzo di mantenere la propria soggettività, in modo da essere segretamente se stessi in presenza degli altri. E qui l’intimità si coniuga con la discrezione, nel senso che se essere in intimità con un altro significa essere irrimediabilmente nelle mani dell’altro, nell’intimità occorre essere discreti e non svelare per intero la propria anima, affinché non si dissolva quel mistero che, interamente svelato, estingue la fonte della fascinazione e il recinto della nostra identità; che a quel punto non sarebbe disponibile neppure per noi.

L’omologazione della confessione pubblica
Ma contro tutto ciò soffia il vento del nostro tempo che vuole la pubblicazione del privato perché, nelle società conformiste, questa è l’arma più efficace per sottrarre agli individui il loro tratto discreto, singolare, privato, intimo dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti, significati propri che resistono all’omologazione (simile al processo a catena di montaggio) cui il potere tende per una più comoda gestione degli individui.
Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, con sempre più insistenza irrompono in modo indiscreto nella parte più riservata dell’individuo per ottenere non solo attraverso test, questionari, statistiche, sondaggi di opinione, indagini di mercato, ma anche con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, spaccato di vite private, per ottenere dicevo, che sia l’individuo stesso in diretta a consegnare la sua intimità, la sua parte discreta, secondo quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati come espressioni di sincerità.
Avviene così quella omologazione a cui tendono tutte le società conformiste con somma gioia di chi le deve gestire perché una volta pubblicizzata, l’intimità viene dissolta e con essa la nostra soggettività segreta e la nostra libertà di relazione con l’altro. Quando infatti cadono quelle pareti che difendono il dentro dal fuori, l’interiorità dall’esteriorità, l’anima di ciascuno di noi viene in un certo modo smontata e depauperata.
Quando le istanze del conformismo e dell’omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a tutti, per togliere di mezzo ogni interiorità come fosse impedimento alla comunicazione, allora il terribile è già accaduto ed è l’omologazione totale della società fin nell’intimità dei singoli individui.
Di intimo rimane solo il dolore, la malattia e la povertà che ciascuno di noi cerca di nascondere per non essere trascurato dagli altri, abbandonato. E così proprio ciò che avrebbe bisogno di comunicazione (il dolore, la malattia, la povertà) resta chiuso nel segreto della solitudine, dove nessuna voce giunge ad attutire quello che la solitudine rende insopportabile.
Abbiamo capovolto il senso del pudore a cui abbiamo dato da custodire non più la nostra intimità, in cui si radica la nostra identità personale e la nostra libertà, ma il fondo opaco e buio del nostro dolore, reso muto dal divieto di comunicarlo.

Incontro urgente, rischioso
“L’incontro tra le tradizioni religiose dell’umanità oggi è inevitabile, importante, urgente, confusionale, rischioso, purificante…”. Così scriveva qualche anno fa Raimundo Panikkar, considerato il più grande esperto di studi interculturali ed interreligiosi vivente.
La scansione degli aggettivi dà la misura della grande sfida che l’umanità alberga dentro di sé in questo momento conclusivo del secondo millennio: o si prende coscienza che il dialogo fra mondi religiosi e culturali diversi è oggi l’unica ancora di salvezza, o il destino del pianeta è in balia del libero sfogo degli istinti aggressivi e dominatori.
Il lettore a questo punto può rimanere sconcertato; pensare di aver saltato pagina e trovarsi in un altro articolo, quello della porta accanto; il largo spazio che si dà alle confidenze dell’intimità sui giornali e in TV non viene concesso al confronto delle culture, che sono una minaccia alle abitudini ed agli schemi interpretativi ed ai programmi universali che le grandi istituzioni propongono ed impongono.
Non c’è spazio in questo momento per l’organizzazione autonoma dei popoli del cosiddetto Terzo Mondo. Le politiche neoliberiste sono talmente strutturate che non ammettono confutazioni. O ubbidisci alle indicazioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, o l’alternativa è l’esclusione e l’emarginazione. Vedo in questo processo selettivo la forma moderna del colonialismo. Abbandonandosi al mito della Torre di Babele (una sola lingua, un solo impero ed un solo re) l’uomo dell’Occidente ha costruito questo sistema demoniaco che tiene nell’abbondanza una piccolissima porzione di persone e nella fame la stragrande maggioranza.
L’alternativa sta nel cambiamento radicale delle regole del gioco. Non è più possibile sopravvivere a questa crescita economica centralizzata se non si alzano in piedi le tante tradizioni culturali che popolano lo spazio del pianeta. Solo un pluralismo vero ed un dialogo senza egemonie permetteranno all’umanità di sperare in un futuro fecondo e al pianeta di riequilibrare le proprie risorse.
Perciò è necessario che i diversi mondi culturali mantengano la propria indipendenza e dal loro contesto contraggano le risorse e la creatività indispensabile per rispondere alle sfide della storia. Il colonialismo politico e religioso è praticamente finito, il colonialismo economico ancora no: ha anzi raggiunto l’apice della sua forza, per i vincitori naturalmente, ed il culmine della debolezza per i vinti, che sono il 75% dell’umanità.
Ma la cultura non è folclore ed ogni cultura ha il suo sistema economico, giuridico, monetario… Per arrivare a questo cambiamento si devono accettare quelle piccole isole di collegamento che chiamerei con il termine inter-in-dipendenza. Non è solo un problema di tecnica economica, ma di fiducia culturale e di coraggio personale.

Incontro necessario a partire dall’interiorità
Il tempo in cui le religioni portavano a rifugiarsi nel loro splendido isolamento è finito. Non si può ignorare l’esistenza di milioni di stranieri che vivono in Europa con un’altra cultura. Dialogo sì, ma non senza condizioni. Distinguendo tra dialogo inter religioso e dialogo intra religioso. Il dialogo inter religioso mette faccia a faccia religioni già costruite e riguarda temi di dottrina o di disciplina. Il dialogo intra religioso non comincia con la dottrina o la teologia, ma inizia dall’interiorità, dall’Intra.
Vuol dire che se io non scopro in me il luogo in cui il buddista, il musulmano, l’ebreo, l’ateo, l’altro può avere un posto nel mio cuore, nella mia intelligenza, nella mia vita, non potrò mai entrare in vero dialogo con lui. Se arrivo ad abbracciarti, lì ti comprendo. Comincia in me stesso ed è scambio di esperienze religiose, più che di dottrine.
È senza dubbio una strada difficile perché occorre elaborare una saggezza adatta alla nostra società.
Sto scrivendo da uno di quei paesi pedemontani e alpini, un tempo radicati su per le montagne, ma desiderosi di vivere; ora impiantati sulle loro conquiste, difesi dai loro recinti, tutelati da un lavoro perenne che non si concede tempi fecondi di incontro. Sono dei paesi questi assai tradizionali, per lo più caratterizzati da uno spirito comunitario conformista e riottoso, bigotti, ritualisti e abitudinari, necessariamente chiusi e poco inclini al mutamento culturale: no, no; chi li conosce sa che non può essere questo il terreno di una rivoluzione culturale… eppure il nostro è l’atto di speranza di chi intraprende un viaggio nuovo sull’onda dell’intuizione che sia possibile il cambiamento.
Vorremmo ritrovare il sapore dell’umano in quanto tale, la sua bellezza e anche grandezza, consapevoli di esserne ancora ben poco all’altezza, per cui urge scegliere di diventarlo, abbandonando la presunzione, tutta occidentale, di appartenere ai migliori, ai più forti, ai riusciti, al modello valido per tutti. La Verità è una partecipazione reale ed autentica al dinamismo della realtà. Quando Gesù dice: “Io sono la verità” non mi chiede di assolutizzare il mio sistema dottrinale, ma di entrare nella Via che porta alla Vita.

Pove del Grappa, novembre 1998