L’uomo invecchia quando i rimpianti spengono i sogni

di Stoppiglia Giuseppe

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Intorno tutto tace. Mi alzo senza far rumore, per non destare chi dorme in casa. Dalle finestre della cucina, nel cielo ancora buio, scorgo un’unghia di luna lucente e una stella alta sull’abete. Solo più tardi, nel trascolorare delle tinte rosa, arancio e turchese ad oriente, sbadiglia qualche imposta sul versante assonnato del pascolo montano.
Ogni alba, ogni aurora è diversa e sempre nuova. Sono teneri e vivi i colori del giorno appena nato. Vorrei condividere con gli amici e trasmettere al loro cuore la limpida alacrità del risveglio. é un privilegio contemplare l’alba ogni mattina e offrire il rito minimale del caffè al rischiararsi della prima luce.
I due ultimi viaggi in Brasile e in Peù mi hanno segnato nell’anima. Una volta messo piede in Italia, mi sono sentito come richiuso in un bozzolo di angosciata fragilità, impotente.

Questo inverno italiano
Lo scenario che ci ripropone questo inverno italiano è un po’ mesto e preoccupante. Ci sono tanti, troppi che preferiscono stare con chi vince e non con chi pensa e prega. Preghiera intesa laicamente, il convivere con la inquietudine e la ricerca tesa fino allo spasimo.
Non possiamo credere di essere giustificati della nostra inettitudine dalla complessità del mondo presente. C’è un dovere di vegliare che può rendere i nostri occhi velati dalla fatica di rimanere aperti; e non solo i nostri occhi, ma il cuore e lo spirito.
E un dovere di pensare e non perdere la lucidità della memoria e della coscienza. Ora, più che mai, i motivi che stanno al fondo della nostra identità e delle nostre scelte non possono essere “spiritualizzati”, ridotti a pure e belle intenzionalità. Non ci è permesso sognare alcun sogno che non sia già l’inizio di un cammino nuovo e ogni fedeltà può avere la sua conferma solo dal nascere di nuovi virgulti. Ognuno è di fronte a se stesso ma, insieme, possiamo essere di nuovo l’uno accanto all’altro.
Nella vita ho votato quasi sempre per gli sconfitti, e mi dispiace più per loro che per me. Ignazio Silone raccontava che per questo lo ritenevano matto. O mi manca ogni senso politico, oppure ne ho uno diverso dai vincitori (o aspiranti tali) della politica. Senza scomodare Simone Weil (“La verità diserta i vincitori”) e senza fare una sciocca apologia della sconfitta, credo che le cose più giuste compaiano naturalmente in posizione di minoranza. Ma il potere, in democrazia, lo dà la maggioranza.

Aporia della politica
Aporia significa restare senza risorse, via senza sbocco, impotenza. C’è un’aporia della politica, ma soprattutto della cultura, di cui non vedo il superamento. Ma credo che ci sia, paradossalmente, un’autentica politica del non potere.
L’uso del potere sembra la via per fare ciò che è giusto e invece frustra e rovina lo scopo, perché ti assimila al campo avverso, quello che nel potere si identifica, che ne usa ed abusa per il suo utile anche ingiusto. Il potere è perlopiù una trappola. I migliori costruttori di umanità lo hanno fuggito.
Collaborare o non collaborare con chi ha il potere, secondo le superiori esigenze della coscienza umana, è il vero super-potere di ogni persona consapevole. Tutto sta nell’arrivare alla consapevolezza senza farsi abbindolare. Il vero “potere di tutti” (Capitini) è la coscienza dei valori umani. Se il potere li serve avrà la nostra collaborazione, altrimenti troverà la nostra resistenza, una leale disobbedienza civile che, alla lunga, lo farà cadere.

Il modello vincente
Guardandoci attorno, la realtà nella quale viviamo ed operiamo è questa: un modello vincente, fondato sull’egoismo ed uno, allo stato dei fatti almeno perdente, fondato sull’altruismo. E anche questo altruismo spesso non è altro che il bisogno di protagonismo, narcisismo, esibizionismo, necessità di gestire un piccolo “potere”.
“Chi dinanzi a questo stato di cose si limitasse a ragionare non potrebbe che disperare. L’alternativa di vita diventa credibile solo a partire da un atto di fede nella capacità che ha l’uomo di cambiare il corso della storia e non di correggerlo in questo o in quel suo particolare”. (E.Balducci)
Anche se le guerre continuano nel mondo e alle porte di casa si consuma da tempo una carneficina brutale, è un’altra violenza che mi spaventa, una violenza divenuta capillare, palpabile, quotidiana. Si tocca con mano per le vie e per le piazze delle città, dentro i rapporti interpersonali. Ne consegue una sensazione, spesso acuta, di insicurezza. L’individuo si sente solo in una società frantumata e minacciata, allora assume assai spesso un atteggiamento di sospetto e di autodifesa, potenzialmente fonte di altra violenza.
Ormai siamo abitatori di frontiera ed innanzitutto della frontiera che separa il presente dal futuro. Il presente è il prodotto di una storia frantumata. I politici che si aggirano nel palazzo rappresentano ciascuno un passato che in molti casi è senza rapporto col passato degli altri. Ma il futuro non potrà fondarsi che sul postulato dell’unità morale del genere umano. La nuova frontiera perciò è quella che divide il nord dal sud. Su questa frontiera siamo costretti a ripensare criticamente la storia, anche quella del cristianesimo e, se ne siamo capaci, a liberarci dal peso della nostra identità.

Eccedenze e popolazione
Il mondo di fine secolo viaggia con più naufraghi che naviganti e i tecnici denunciano le “eccedenze di popolazione” nel Sud del mondo, dove le masse ignoranti non sanno far altro che copulare, concepire e figliare. “Eccedenze di popolazione” in Brasile, dove ci sono 17 abitanti per Km. quadrato o in Colombia (29 per Km. quadrato). L’Olanda ha 400 abitanti per Km. quadrato e nessun olandese muore di fame. Non sarà che in Brasile ed in Colombia un pugno di voraci si tiene tutti i pani e i pesci?
I nuovi soggetti politici che stanno lavorando alla speranza vengono spesso chiamati utopisti, quasi fosse un insulto. Ma utopista è colui che sta con i piedi nel presente e lo sguardo nel futuro. “L’utopista è colui che va perdendo anche quell’ultima paura che attanaglia l’uomo, lo rende violento e lo divide dagli altri uomini: la paura della morte. Perché l’utopista, col suo sogno, va oltre gli anni della sua vita ed è già un risorto” (G.Martirani).
Se il dominio che l’occidente ha esercitato per secoli non è solo politico ed economico ma anche culturale, ogni cammino di liberazione deve essere necessariamente un itinerario educativo. Un’educazione solidale, non violenta, capace di celebrare le differenze.
Si tratta di educazione, non di insegnamento. Con quest’ultimo il docente imprime un segno ai suoi educandi, riempie le teste-salsicce, le farcisce come fossero degli insaccati. Con l’educazione si ritorna alla maieutica e in qualche modo si parte dalla vita, dal contesto esistenziale.

Insegnare è sottomettere, educare è capire la vocazione, capire i talenti delle persone e “dare loro un nome” perché si possano inserire nel mosaico della vita. Così facendo l’educatore diventa maestro.
Oggi si vive di incontri labili, fuggevoli, di rapidi impulsi telematici, di microintervalli percettivi. Non ci si sofferma più a raccogliere i giorni nel cavo delle mani, ed assaggiarlo ed offrirlo in dono.
Qualche giorno fa l’amica Ada mi diceva che fra amici siamo ridotti a raccontare quello che facciamo e non comunichiamo più quello che siamo. Espropriati del nostro esistere, esuli da noi stessi, non possiamo trasmettere lasciti, eredità spirituali. Ogni esperienza, anche la più alta, la più intensa, la più significativa, si consuma nell’attimo, senza lasciar traccia.
Nell’imperversare dei mezzi di comunicazione di massa, non si riesce più a comunicare autenticamente con l’altro, da persona a persona, da creatura a creatura.
é necessario che ciascuno di noi abbia il coraggio di guardare dentro di sé e di dar seguito a ciò che vi scorge. La cosa più grave è oggi proprio questa incapacità di sognare. Credo che se suscitiamo il sogno che è nascosto nel cuore di ognuno, il pericolo della perdita d’identità svanisce. Suscitare i sogni nelle persone è recuperare la loro capacità di fare appello alla memoria.
Macondo, se ha un compito, ha proprio questo: di inquietare, disturbare e far sognare. Come nell’avvenimento evangelico, ognuno di noi può avere con sé, per motivi diversissimi, i pochi pani e pesci che possono sfamare moltitudini. Ma non possiamo riservare quanto abbiamo solo a noi stessi o ai pochi con cui si giudica di poterlo dividere. Nella fiducia si possono calare di nuovo le reti della speranza, la fiducia che ci siano braccia pronte come le nostre a tirarle fin sull’altra riva: l’approdo di un’umanità ritrovata.

Contrappunti
La luce fuori ora è chiarissima, trasparente: è mezzogiorno, aspetto qualcuno per il pranzo, ma non arriva. Ho invitato Briza (significa Brezza), una bambina di nove anni, conosciuta in una favelas di Rio de Janeiro nel gennaio scorso. Abita in un recinto di cartone e come tetto ha un lenzuolo nero. Custodisce due fratelli più piccoli e due cugini; la mamma lavora 10 ore al giorno, il papà non lo ha mai conosciuto. Il sorriso che mi porge in risposta all’invito è di accoglienza serena e tranquilla. Ma presto mi accorgo che questa è solo una proiezione dei miei desideri.
Briza seduta per terra mi guarda incredula con gli occhi neri ed asciutti e mi rovescia, dentro l’ordine pigro dei miei pensieri, gli scaffali etichettati dei miei progetti. Dentro il suo petto le lacrime hanno scavato una pozza nera di veleno.

Marzo 1995