Oltre il benessere della rassegnazione. Frantumare l’immagine e scoprire il volto nascosto

di Stoppiglia Giuseppe

«La rassegnazione non è che un
orientamento verso il passato,
un impoverimento delle nostre
sensazioni e delle nostre idee,
come se ciascuna di esse stesse
ora tutta intera nel poco che dà,
come se l’avvenire si fosse in
qualche modo chiuso».
[H. Bergson]

«La radice non è che speranza,
ascesa paziente nel buio,
verso il giorno che non conosce
e che non vedrà mai…
verso il fiore che non conosce
ed è nutrito dalla sua notte».
[Marie Noì«l]

La tentazione di vivere solo per sé
Vestita di bianco, Elide sedette vicino a me sulla panchina della scuola materna di Thornbury, a Melbourne. Elegante e distinta. Mi sorrise gentilmente e incominciammo a parlare subito, in italiano. Era simpatica, intelligente, sensibile. Entrammo immediatamente in sintonia. Il suo era un viso sofferto, ma l’espressione serena era di una donna che aveva raggiunto un equilibrio umano, sostanziato di saggezza. Nel colmo della maturità, con qualche filo d’argento nei capelli e il corpo segnato dalle gravidanze, ma vivo e vibrante. «Bisogna scoprire ­ diceva ­ i valori femminili che sono stati trasmessi e affinati nel corso dei secoli: la generosità, la pazienza, la dolcezza, la capacità di comprensione e di perdono. Perché è solo dando che si riceve. Anche qui ed ora. Se un affetto è valido, se il rapporto di coppia è importante, se la famiglia è un centro insostituibile, se la casa è un luogo privilegiato, ebbene bisogna “sapere” e “volere” superare le crisi, aver fiducia, anche in se stesse, aspettare il momento giusto, non forzare i tempi, non inasprire le tensioni; bisogna saper cedere per non perdere tutto. «Questo è il prezzo dell’unione, ed è la donna, la madre che può tenerla salda, cercando di non venire meno al suo compagno anche durante le sbandate più insidiose, di non venir meno ai figli anche nei periodi di più dolorosa incomunicabilità. In fondo si tratta di sapere quello a cui si tiene di più. Non credere mi sia stata facile questa fedeltà a me stessa: anch’io ho subito l’influsso e la tentazione di tanti modelli diversi e contraddittori, di tante suggestioni esterne. «Mi sentivo demotivata, arcaica e respinta proprio a causa di questo. Invece l’esperienza mi ha confermato che ero nel giusto. Ho ascoltato la voce del cuore, che mi dettava un certo modo d’agire contrario a tutti i consigli. Sentivo di dover restare accanto a lui, sentivo che i figli avevano bisogno del mio amore, della mia presenza anche se erano sgarbati ed indifferenti. E ho fatto bene a non lasciarmi convincere da chi mi diceva di vivere la mia vita. Non avevo alcuna certezza, solo un filo, esilissimo, di speranza. Alla fine stavo perdendo anche quello. Resistevo perché non potevo fare altrimenti. Ebbene, proprio allora, quando tutto sembrava perduto, lui è ritornato a me. E i figli mi si sono avvicinati, è ripreso il dialogo».

Un ritratto in una cornice azzurra
Pensavo, ascoltandola, al modello materno, alle parole di mio padre: «Camminava in punta di piedi per non disturbarmi quando lavoravo…». E pensavo alle lettere macchiate di lacrime consegnatemi da un’amica della mamma: «Che mio marito non sappia mai quanto ho sofferto!». Mia madre. Un ritratto in una cornice azzurra. «Mi pare che l’umanità peggiori ­ continuava Elide ­ si vive di violenze e di inganni. Ero venuta qui per stare meglio, e anche qui ho avuto delusioni… Il sogno del paese innocente si è incrinato fra queste verdi colline. Continuerò a sognare, perché sognare è speranza. La mia vita è stata bella: per i sogni. Anche se si sono sbriciolati non ha importanza, perché mi hanno permesso di creare qualcosa». Guardo questa donna coraggiosa senza farmi attanagliare dalla commozione, ricordando tutti gli emigrati italiani in Australia e i loro figli, con una tenerezza che sia solo fiducia. Darsi un fine. Onesto. Grande. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo… ma è il fine ultimo da ricordarsi ogni tanto. Quello immediato, da ricordare minuto per minuto, è d’intendere gli altri e di farsi intendere.

Oltre l’attesa: la speranza
In certi momenti sembra che tutto si accanisca, che l’equilibrio di ogni cosa si perda. Poi la vita si ricompone. È la sua forza. È la terapia del tempo. Quando l’attesa diventa senza oggetto si trasforma in disperazione o, peggio, in rassegnazione. Allora quello slancio che mette avanti il sogno alla realtà, affinché qualcosa si possa realizzare, si spegne, e, quando si spegne un sogno, la notte si fa più buia. Come dice U. Galimberti: «La speranza va più lontana dell’attesa. Guai a chi si ferma all’attesa dove l’avvenire viene verso di me, ma io non vado verso di lui. A differenza dell’attesa, la speranza va più lontana; allontana da noi il contatto immediato con l’ambiente deprimente, e non dice cosa posso attendere da questo ambiente, ma cosa posso fare al di là di questo ambiente. In questo modo la speranza ci libera dall’attesa ansiosa e da questa liberazione nasce l’alleanza tra la speranza e il desiderio, che la semplice attesa deprime». Desiderio e speranza vietano di arrendersi alla rassegnazione che è l’atmosfera delle terre depresse. Per creare, occorre una dose pazzesca di desiderio nutrito di speranza. Si è soli con se stessi, sempre, in ogni situazione, nel dolore come nella gioia. Puoi condividere, ma solo in parte. Ci si trova, poi, come dopo una festa. Rimane il profumo, la scia. Un tavolo con i segni del prima e la strana presenza del dopo, immobili: i bicchieri vuoti, le bottiglie, il pane, i discorsi incompiuti. Tutto rimane là, come in posa, per una regia indiscreta, rarefatta. Sospeso per anni, rimane il profumo.

La voglia di vivere è come una carezza…
In questi mesi si è parlato di comete, di eclissi, di Ulivo alla prova, di carne impazzita, di violenze sui bambini, di gente che uccide e si uccide. Che sia la vita? Tutto qui? Mai a sottolineare il corpo di uno sguardo, il suo infinito che dura nonostante tutto… Come il sole illumina ricchi e poveri, almeno finché i berlusconiani non avranno scoperto la tecnica per monopolizzarlo per i giardini delle loro ville, così affiora la voglia di vivere come appello al soccorso di chi si sente attaccato da forze di morte, e come speranza di non esserne inghiottito.

… e non una mano che afferra
Solo chi coraggiosamente si mette nella nebbia e cammina con tutti, può trasmettere una forza di salvezza. Per questo non è intelligente la certezza: «Tutte le ideologie sono morte, solo la Chiesa vive». Poco intelligente perché dichiara un arresto della storia, che speriamo provvisorio. Le ideologie non sono il segno che la storia cammina? Secondariamente, una tale espressione trionfalistica manifesterebbe che la Chiesa è fuori, estranea alla società; e quindi inutile. Chi ama la Chiesa non deve fidarsi delle dichiarazioni trionfalistiche, perché è chiaro che provengono da quegli strati sociali che sperano di assicurare la loro sopravvivenza, aggrappandosi a quella barca che ha la garanzia di non affondare. Chi la salva dal naufragio non sono quelli che vi cercano sicurezza, ma quelli che coraggiosamente si gettano nell’acqua e, col rischio della propria vita, si impegnano a tirarla fuori dalle secche. L’impressione di una barca che affonda viene dall’affollamento di molti che vi cercano sicurezza, sfuggendo con pretesti pietistici e culturalistici le loro responsabilità mondane. Sta cambiando il mondo e la società; occorre perciò ridestare spirito di critica e di responsabilità.

Vivere è un processo di umanizzazione
Vivere, camminare, partire purché ci sia nella mente, sempre, il bagliore della luce, la meravigliosa impronta del genio di Dio, che è in ogni creatura. Vivere significa cambiare; meglio, vivere vuol dire progredire in umanità, procedere oltre, raggiungere nuove soglie dell’umano. Il motivo è semplice: alla nascita si è solo potenzialmente umani, lo si diventa via via, lungo il corso di tutta la vita, senza mai raggiungere uno stato definitivo. Se, infatti, compimento c’è, sarà al termine dell’avventura personale. Rifiutarsi di cambiare conduce, così, alla ripetizione dell’identico. Alla sclerosi. Si starà più tranquilli, ma attorno aleggerà un sottile odore di muffa. Vivere, quindi, significa prendere coscienza e scegliere di essere in processo di umanizzazione, inseriti nel divenire più ampio della storia e pure del cosmo. Biblicamente è considerarsi in esodo, spesso nel deserto, in viaggio verso la terra promessa: il modello è l’homo viator. Si tratta, però, di un progredire qualitativo, non quantitativo, appunto, di migliorare la propria umanità. Non tutti i cambiamenti, quindi, sono un progresso. Sono possibili regressi. Evidenti. O ammantati di novità. Ci vuole, allora, un criterio, una direzione di rotta per cercare di distin­ guere i veri avanzamenti dal loro contrario. Credere nella vita è credere negli altri. Recentemente, durante una notte in cui non riuscivo a dormire, mi sono reso conto improvvisamente di questa verità: non si dice veramente credo se non si dà fiducia. La natura della fede è proprio questa. «Essi ti chiederanno: cosa sono queste ferite sul tuo corpo? e quando lo faranno tu dovrai rispondere: queste sono le ferite che ho ricevuto in casa dei miei amici» (Zaccaria, 13.16).

Comprendere, più che essere compresi
Sì, sembra proprio che le nostre ferite più profonde vengano quasi sempre da un compagno, un caro amico, uno (tu) con cui hai camminato nella casa di Dio. Il malinteso con l’amico è più doloroso dell’odio del nemico. Il fraintendimento di chi ami ti fa male. Ma l’amore è comprendere più che essere compresi, è preferire di patire il male piuttosto che commetterlo. Allora l’amore è doloroso. Ciò è normale. Si deve saperlo e ricordarlo e non lamentarsene. La croce è legge dell’amore, e non la felicità immediata e continua. Se, dentro di te, rimproveri la persona che ami di non farti sempre felice, tu ami solo (e male) te stesso e non lei. Dice un mistico musulmano: «Chi ammira soltanto le cose che destano meraviglia è un amante che sta davanti ad una porta diversa da quella dell’amato». Ciò vale anche nell’amore tra noi. Chi cerca nell’altro soltanto ciò che è meraviglioso e piacevole, attende invano di trovare l’altro.

Alla ricerca della nudità del volto
Nel cuore dell’opera di Emmanuel Lévinas non si trovano idee, teorie o dottrine. Il centro vivente della sua ricerca è il volto. Di fronte alla nudità totale degli occhi io scopro l’Altro che mi attende, che mi fa responsabile. La nudità del volto è indigenza. Riconoscere l’altro è riconoscere una fame. Incontrare l’altro è donare. L’uomo è, anzitutto, un essere in relazione e in responsabilità. Guardare il volto, Epifania dell’Altro. Sapere che l’incontro con l’Altro è anche incontro con Dio, e che la dimensione del divino si apre a partire dal volto umano. Il volto è sempre stato celebrato come l’immagine più fedele del mondo interiore di una persona. Secondo France Queré, «è il solo luogo dove l’anima osa denudarsi». Le lacrime, i sorrisi, le rughe, i rossori, le luci e le ombre che trascorrono in uno sguardo, rivelano la verità nascosta più di tante parole. Non solo: rivelano il mistero di appartenenza alla dimensione del divino. La faccia è qualcosa di diverso, la contraffazione, appunto, del volto. Se il volto è verità, la faccia è finzione. Se il volto coincide con quello che uno è, la faccia si identifica con quello che pretende di essere. Ci sono facce di cartapesta e di bronzo, come dice un’espressione dialettale. Ci sono facce per tutte le stagioni, usa e getta. Hanno in comune un aspetto fondamentale: tendono ad alterare la verità, o perché nascondono ciò che c’è o perché fingono ciò che non c’è. Per l’ipocrita e il millantatore, la faccia è dunque il surrogato del volto.

Per dare voce al dolore
Ho l’impressione che ci siano in giro più facce che volti. Sulla scena politica è un fatto scontato, ma non riguarda solo la sfera politica: è più diffuso; un fatto endemico. È possibile ritrovare il nostro volto, se mai l’avessimo perduto? Penso di sì. In un testo teatrale di E. Canetti (siamo in una specie di Luna Park), tutti sono invitati a infrangere con delle palle i grandi specchi che hanno di fronte, distruggendo in questo modo la propria immagine riflessa. Come mandare in frantumi la propria faccia, per riscoprire il volto nascosto? Può essere utile, proprio in questo periodo, in cui con la primavera ritorna il sole mite e lucente, visitare un cimitero. Occorre farlo da soli, nel più totale silenzio. Lì non ci sono più facce. Ci sono soltanto volti: quelli che, amici e conoscenti, sono stati di fronte alle domande essenziali della vita. Anche il sostare presso il letto di un ammalato è un’occasione favorevole. Dal dolore viene sempre una lezione di verità e di saggezza: ricordate i volti di Lucio Flavio Pinto, di Rosy, di Adelaide, di Gigia Canizzo, di Miguel, di Esmeralda e di Gherardo Colombo alla festa di Macondo? Per riscattarci, la nostra faccia ha bisogno di essere bagnata da qualche lacrima di pietà? No! Occorre dare parole al dolore, come dice Luigi Cancrini: «Il dolore grande è muto, insopportabile: nudo, nero grido inarticolato nella notte. Gelido pozzo di solitudine. Cancro o follia, il malato è solo». Allora, solamente allora, la nostra faccia può ridiventare un volto.