Possono tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno la primavera

di Stoppiglia Giuseppe

“Crescere in silenzio, gli uni accanto agli altri,
come fili d’erba:
dalla terra tesi verso il cielo irraggiungibile;
senza che il verde sappia di essere solo un riflesso della luce;
senza sapere che senso abbia essere parte del prato,
se non per la bellezza della sua distesa
quando è piena di sole;
e per la speranza che ogni filo d’erba tessa la trama
di una realtà sovrasensibile”.
[Silvano Fiorato]

“Ho trovato il significato della mia vita
nell’aiutare gli altri a trovare
nella loro vita un significato”.
[Viktor E. Frankl]

I miei vicini più prossimi sono gli alberi. Sono i testimoni muti della mia vita quotidiana. Il vento talvolta li risveglia o li tormenta, e tutti mescolano le loro voci in un coro senza parole. Abitiamo insieme, ma i nostri rapporti sono diversi. Ce ne sono alcuni a cui passo accanto senza conoscerli, che vedo senza affatto guardarli. Altri, al contrario, mi sono intimi. Li ritrovo ogni giorno con piacere, sorveglio il loro stato di salute, appoggio su di essi la mia anima.
Infine ci sono alcuni vecchi compagni, amatissimi fin dall’infanzia, che sono per me quasi parenti. I grandi abeti che sembrano avvicinarsi quando cade la notte; il gelso centenario dal tronco cavo, che si è rivestito di giovani germogli freschi; la grossa quercia al bordo del fossato di cui due rami si sono saldati per fare una specie di nicchia, dove la civetta ripara i suoi stupori notturni.
Moriranno prima di me? Non so.
Quando alcuni anni fa, una tempesta lancinante abbatté il più alto abete, che era nella mia infanzia, l’albero maestro delle mie vedette solitarie, i suoi rami spezzati ed il suo fusto steso a terra mi significarono che anche la mia vita si avvicinava alla sua fine. Qualche mese più tardi, il buon Battista piantò castagni, faggi, tigli, querce.
Malgrado la siccità della primavera scorsa, le estremità dei rami rivelano che essi continuano la loro crescita. Chi si arrampicherà sui loro alti rami fra cinquant’anni?

Lo stupore selvaggio
della non conoscenza

Piantare non ha da fornire le sue ragioni. Dare la vita alla vita alimenta la propria gioia. Con gli alberi ci sono gli arbusti, i cespugli, le erbe: quanti mondi attorno alla mia casa. Nel frutteto, dove sono allineati susini, ciliegi, meli, peri, regna l’ordine. Ignoro quasi tutto della biologia vegetale. Ci sono molte piante di cui non so nemmeno il nome. Talora rimpiango di non poter chiamare per nome i miei vicini e di non avere né il tempo, né il coraggio, né la capacità di studiarli. Ma devo anche confessare: mi piace ignorare e conservare lo stupore primario, selvaggio della non conoscenza….
A troppo conoscere, avrei timore di perdere l’ingenuità delle mie meraviglie. L’attenzione più pura prestata alla realtà consiste nello scoprire incessantemente che ogni foglia, ogni albero, ogni paesaggio è unico.
Ecco io vivo con tutta questa popolazione. Qualunque fiore, perfino lo stelo d’erba, contemplato con amore, è una chiave dei cieli, è soggetto di parabole… la vita è in noi, è in loro, così comune, così differente, così strana. Il mondo oltrepassa infinitamente le nostre percezioni, le nostre ragioni e i nostri sogni?
Ci sono viventi attorno alla casa, che lo attestano con la loro solida esistenza. “Basta presentire il mistero che si nasconde dietro lo splendore effimero di un fiore per essere liberati dalla paura di morire” (Jungen). Guardo attraverso la finestra le foglie del frassino, ombre e luce, si agitano leggermente e mi fanno segno…

La paura del limite ultimo

Mi accorgo che il mutamento culturale ha reso quasi improponibile la meditazione sulla morte. Un insieme di reazioni critiche ci porta a considerare il riferimento alla morte come un’abile manipolazione per suscitare la paura nelle coscienze e catturarle più facilmente. Penso che questa distrazione di fronte alla nostra condizione di mortali, sia uno dei modi con cui la civiltà disumana in cui siamo, ci fa vittime. Ma per quanto si cerchi di eludere la lucida presenza del nostro limite di creature mortali, la nostra condizione ritorna costantemente.
Oggi è tornato di moda – secondo me giustamente – riflettere sull’insicurezza che sta alla base dell’uomo. Man mano che le croste superficiali di una cultura ottimistica si sfaldano, questa insicurezza riaffiora collettivamente e individualmente, a volte fino ai limiti della follia. Potrebbe anche trattarsi di un processo verso una maggiore autenticità umana, verso una liberazione dai miti che si sono rivelati inadeguati, dalla falsa riconciliazione dell’uomo col suo limite, dall’orgoglio stoico che nasconde paure soffocate. Se così è, torna attuale il discorso della morte.

Le tavole del naufragio

L’esistenza non ha un centro comprensibile di gravitazione. Essa è labile. le sicurezze che ci creiamo nella nostra vita pubblica non sono che tavole del naufragio cui ci si aggrappa illudendoci della loro solidità.
In realtà anche i nostri sostegni sono in movimento. Prenderne atto significa già non essere schiavi della menzogna collettiva, trovarsi veri.
Quando riponiamo la nostra sicurezza nelle condizioni umane esistenti, nelle promesse verificabili, che magari assumono, dinanzi ai nostri occhi, le latitudini e le longitudini degli ideali storici, se le nostre radici non pescano nell’acqua profonda, quando viene l’anno della siccità, queste sicurezze si rivelano per quel che sono. In quel momento l’albero pieno di fronde secca, avvizzisce in un attimo. L’insicurezza invade l’uomo sicuro che precipita nella disperazione.
Se viceversa le nostre radici sono immerse in quest’acqua profonda che è il Dio innominabile, il risultato è un’improvvisa liberazione da tutte le sicurezze che ci possono essere offerte dal mondo. Si entra nel versante delle beatitudini.
Nelle città moderne si è perso il senso della socializzazione, le relazioni sociali si limitano molte volte ai rapporti tra i membri di una famiglia frammentata. Si vive ammassati, mescolati, sempre molto vicini, ma non si riesce a costruire una relazione, a stabilire una comunicazione pacifica, a combinare le differenze e permettere ad ognuno di avere il proprio spazio.

Città senza piazze

La società globale insegna la necessità della concorrenza e la lotta di tutti contro tutti. Vince solo chi non ha morale. Le organizzazioni ed i movimenti popolari sono in decadenza. Persino nei paradisi della classe alta la solitudine è grande. Ognuno si isola nella difesa dei propri interessi, per non essere disturbato da alcuno e alcunché.
Gli agglomerati attuali vanno trasformati in città, perché la città è civilizzazione, mentre la situazione attuale è barbarie. In questa cultura individualista abbiamo imparato ad appropriarci della speranza per esorcizzare la paura del futuro e della morte, e nelle nostre preghiere comunemente chiediamo il cielo, il premio, il riposo.
Credo sia arrivato il tempo di chiedere che Dio si ricordi della sua alleanza. Bisogna trovare la fede audace di chiedere a Dio, che sembra dormire ed essersi dimenticato di noi, di svegliarsi e di ricordarsi di aver giurato misericordia.

Lo specchio infranto

Dobbiamo partire dalla consapevolezza di essere esiliati, spinti all’esilio da un potere a cui è impossibile resistere. I nostri governanti sono gli agenti di questo potere invisibile: non possono decidere di soddisfare i bisogni essenziali della loro gente perché devono obbedire a regole “superiori”, dettate, ad esempio, dal Fondo Monetario Internazionale. Non possono migliorare l’istruzione, né soddisfare il diritto al lavoro, non possono chiudere le fabbriche di armi, né troncare il traffico della droga. Viviamo in un paese, su un pianeta occupato.
La globalizzazione ha trasformato la terra in cui siamo nati in terra d’esilio, senza occupazioni e senza deportazioni.
Nessuno scaccia, forse, dal loro paese i marocchini, gli albanesi, i curdi: è lo stesso anonimo imperatore che li obbliga ad emigrare. Il neoliberalismo rompe come uno specchio il mondo che afferma di voler unificare, e crea una megapolitica che riunisce le politiche nazionali in un solo centro, unicamente al servizio degli interessi economici.
Confondere l’incontro armonioso, fecondo di popoli, convocati ad un incontro fra diverse storie e diverse culture, con la globalizzazione distruttiva delle differenze, è un segno di essere abbandonati dallo Spirito.
Negli ultimi vent’anni è avvenuto un processo contraddittorio: l’espansione dei diritti si è accompagnata ad una perdita del sentimento dell’universalità dei diritti.
Ognuno è virtualmente ordine, mondo, diritto a se stesso. Si torna allo stato di natura, alla guerra di tutti contro tutti, all’uomo di Hobbes. Con la differenza che questo lupo dice all’agnello: ti mangio perché è nel mio diritto.

Quale ricomposizione?

Non si costruisce una società solo attraverso l’economia, la polizia o le istituzioni politiche. Occorre un’etica comune, una base introiettata nell’inconscio collettivo dei valori.
Il valore fondamentale della nuova etica sarà la relazione umana, cioè la capacità di relazionarsi, di convivere. La stessa convivenza nella diversità, riconosciuta ed accettata, sarà la base della nuova etica. Ciò che un individuo dovrà valorizzare sarà il posto occupato nella convivenza umana, il compito che realizza nella formazione delle relazioni umane.
In questo scenario si inserisce la possibilità di fondare il “terzo uomo”, come lo chiama Armido Rizzi, la persona, alla luce del racconto dell’Esodo, in cui “il Dio che non è di nessuno, sceglie di diventare il Dio degli Ebrei, che sono un non-popolo, sono stranieri, sono nessuno.
La relazione tra Dio e il popolo ebraico diventa così il principio di ogni altra relazione tra individui. Non si basa su alcuna preesistente relazione che si giustifichi dal punto di vista della coappartenenza, una solidarietà non basata su un legame già dato, ma solidarietà con l’altro che non appartiene al mondo dei miei interessi.
L’individuo non si definisce nella relazione con l’Altro, ma dal tipo di relazione in cui l’Altro è straniero.

Il terzo uomo

Tutto ciò è carico di conseguenze politiche: la solidarietà non è un dato di natura, ma una decisione etica che va presa volta per volta. Se tutti prendessero la strada del Buon Samaritano non ci sarebbe più bisogno di politica.
Ma così non è, e dunque il “terzo uomo”, la persona, ha bisogno della politica e delle istituzioni per una società chiamata ad essere nel suo insieme soggetto etico.
“Io credo che noi tutti siamo soffio di un vento più grande. E io sento che questo vento più grande non ha niente a che fare con il colore della pelle, il luogo di nascita ed altre sciocchezze, ma con la volontà di giustizia e di bellezza” [E. Galeano].
È molto importante non dimenticarlo, per il futuro. Avremo una cultura molto povera di parole, ma ricca di testimonianze vissute, sarà la primavera. Un albero verde in una zona arida, è un punto di riferimento, un luogo d’accoglienza, non è un altoparlante. Quando verrà il momento della siccità tutti si raccoglieranno intorno a colui che si rivela ancora vivo e fecondo, perché il suo alimento è altrove.
Abbiamo il coraggio di affrontare il tempo che viene?
Ne sono certo, ho letto la sfida nei vostri occhi.

Pove del Grappa, 22 febbraio 1998