Se il futuro è in vendita

di Stoppiglia Giuseppe

«Non ventilare il grano
a qualsiasi vento
e non camminare
su qualsiasi sentiero».
(Siracide, 5,9)
«…Questa è l’immagine del Signore,
una fioritura continua…».
(Alda Merini)

Il circolo virtuoso della vita

Bella è la mia montagna. Così bella che da lontano mi riempie il cuore, quando si apre allo sguardo con le sue cime dolcemente smussate. Forse è un po’ goffa, forse un po’ impacciata, con quei lenti declivi scesi a sostenere gli agglomerati appesi alla sottana. È bella nelle sue forme e nei suoi colori.

Bella d’inverno, scarna e desolata, tenera di mestizia e di rimpianti. Fa sognare le stagioni andate, i giorni amati che non avrai più. Eppure sa cantare la speranza che nasce dal turchino impallidito, poi scende e accarezza la neve e i rami spogli.

Bella d’estate con il verde profondo di pini e abeti che scalano i rilievi, su, su, fino alla croce del Grappa. Un verde ansioso, con cento volti e mille sfumature. Un verde immenso, dove appaiono a tratti bianche case. La montagna dal cuore generoso che dà a tutti ristoro e frescura con le sue sorgenti limpide, che dissetano i monti e le pianure, scendendo le chine fino a valle.

È, però, a primavera che libera la sua bellezza più tenera. Quella che canta l’eterno fluire della vita che nasce e muore, che ritorna e va, che muta nell’aspetto e nei colori, ma non ha fine. Niente scompare definitivamente, niente che non si affacci in altre forme e in altre dimensioni.

Ora che è arrivato l’autunno, l’ambra dei boschi è come spruzzata d’arancio. È il momento in cui ha il fascino gentile di una sposa e l’ingenuo entusiasmo di un bambino. Ha lo stupore dell’alba che accoglie il sole e lo rimanda al cielo e l’innocenza del tenero fogliame. Ha la voce dei bimbi sulle strade, il cinguettio festoso nelle gronde, il lento monotono tubare.

La mia montagna è il fremito di gioia che sa donare, se ti allontani e poi ritorni a casa. È una madre che non si stanca mai d’aspettare i suoi figli, che li accoglie amorosa e, se delusi, li stringe forte al seno e li consola.

Le parole del ministro

Per alcuni giorni le dichiarazioni del ministro Padoa Schioppa hanno riempito i giornali della parola «bamboccioni». Sui quotidiani tutto è rapidamente passato. Dentro le mura domestiche la presenza di giovani adulti in attesa di una sempre più dilazionata fuoriuscita non perde, invece, di attualità. Le statistiche dicono che in Italia il 62% delle persone tra i 20 e i 35 anni vive ancora con i genitori, mentre solo il 22,3% convive con un coniuge o un partner. Secondo le dichiarazioni degli interessati questa situazione è dovuta soprattutto a fattori economici. Essa però è legata anche (e forse soprattutto) a un’incapacità di osare scelte nette e irreversibili in un’età in cui ci si sente impreparati per farlo. Ciò è tanto più vero se si mette in campo la prospettiva di diventare genitori. Quello che un tempo, grazie all’uniformità sociale e culturale, era considerato un esito ovvio, oggi appare sempre più un rischio.

La risposta a tale situazione non può essere uno sterile vagheggiamento di modelli archiviati per sempre. Occorre piuttosto impegnarsi a liberare da incrostazioni e da paure il nocciolo di verità contenuto in questa insicurezza.

Precarietà, mobilità, incertezze sono note reali dell’esistenza umana. Occorre dare loro spessore culturale, non cercare vanamente di ricondurle nell’alveo di modelli ormai tramontati. Per farlo è obbligo contrastare le tendenze neoconformiste di giocare l’inquietudine e l’instabilità tutte sulla superficie.

Il fondamento del senso morale

Il problema dell’educazione dei giovani è una questione decisiva per la vita di un popolo. Il loro disagio ormai palese è il sintomo di un processo di degrado molto ampio, che riguarda l’intero tessuto della nostra società.

Viviamo assopiti in uno strisciante e diffuso nichilismo, nel senso che non esiste nulla che abbia valore. Il nucleo dell’ideologia che sistematicamente viene trasmessa, attraverso giornali e programmi televisivi, agli ignari destinatari del messaggio mediatico, è l’ottuso appagamento di ogni bisogno che il sistema concede a chi dispone di risorse economiche, per soddisfare il proprio bisogno di piacere. È il trionfo del denaro e dell’effimero godimento del presente.

Abbiamo riempito il mondo di mezzi di comunicazione (cellulari, internet, radiotelevisione…), ma abbiamo abolito i luoghi di comunicazione, gli unici spazi che avviano e sviluppano i processi educativi. Non ricordiamo più che l’apprendimento etico avviene sempre dopo una bella storia vissuta col padre, con la madre, con il maestro, dove si creano le condizioni per la nascita del sentimento, unico fondamento del senso morale. «Il momento per costruire storie insieme è quando i figli non sono ancora abbastanza grandi per andare ad ascoltare i racconti del mondo per proprio conto», scrive sapientemente Fulvio Scaparro. Se non ci alimentiamo di una verità vivente, trasmessa di generazione in generazione, non potremo mai essere terreno di cultura per affondare le radici, per diventare popolo.

Parole tradite

Il mondo degli adulti dà l’impressione di non capire più in che direzione sta andando e che ordine di valori sta difendendo. Gli adulti «politicamente corretti», «economicamente produttivi», sono troppo spesso assenti nella battaglia per raggiungere quello che è realmente giusto. Il nostro è un mondo di singoli che tentano di sopravvivere, all’insegna dell’individualismo più sfrenato. Questa cruda realtà è purtroppo oggi mascherata da due parole di moda. La prima è libertà, che, applicata all’economia, diventa «libera concorrenza» e, calata nei rapporti umani, significa libertà di far fuori il prossimo che ci ostacola, trascurando quello che non ci serve. La seconda è comunicazione, intesa però come pubblicità, presenzialismo, siti da visitare e mai come parola scambiata con chi ci passa accanto e ci chiede qualcosa.

Ogni famiglia allena inconsapevolmente i propri figli a questi due imbrogli. Fa credere, infatti, che la libertà di espressione sia assicurata e che la possibilità di comunicazione sia sconfinata. Niente di più falso per creare le premesse alla depressione giovanile, che cattura non solo i figli deboli, ma anche quelli più sensibili, a cui il gusto della vita non prometteva certo che per vivere fosse necessario far fuori il prossimo e farsi largo per apparire.

Il futuro, ai loro occhi, si è trasformato da promessa in minaccia. Si è generata una situazione di impoverimento umano sconvolgente, anche sotto il profilo spirituale. «Siamo talmente avidi – scrive Achille Rossi – nell’afferrare le cose, nel consumarle e nel gettarle che entriamo nel vuoto interiore… e pare che in questo vuoto i nostri giovani, e non solo loro, affondino».

Cinico opportunismo

L’ambizione fondamentale dei politici, di destra e di sinistra, resta la crescita economica, la competizione e il risanamento dei conti; scarso o nessun interesse, invece, per la disgregazione sociale e il collasso del pianeta. Cosa importa se nascono sempre meno bambini e quelli che esistono sono trattati come pacchi da depositare, se gli adolescenti sono spinti a seguire gli adulti nella corsa all’autoaffermazione, senza alcun riguardo al loro bisogno d’amore, se gli anziani si trascinano senza alcun ruolo nella società, che li considera inutili?

Se il cinismo, l’opportunismo e l’egoismo più indifferente sono i fondamentali della nostra vita collettiva, significa che questa società è profondamente malata. Il senso della vita non può essere il consumo, la ricerca immediata dell’appagamento, la fuga dalla realtà. Prima o poi si incontra sulla strada l’esperienza delle frustrazioni e del dolore e, per evitare che essa si trasformi in rancore distruttivo, è necessario che l’intera società ritrovi le ragioni del proprio stare al mondo.

Si parla di modelli di convivenza, di integrazione, di intercultura, ma non si fa nessuno sforzo serio per costruire una comune grammatica dei sentimenti e degli affetti. Come si può realizzare coesione sociale se non si produce uno spazio di valori e parole impegnative per la persona sul terreno della lealtà, della fiducia, della speranza di dar vita insieme a un altro tipo di società?

Mentre i giovani chiedono «politica», nel senso di opzioni di valore, di impegno etico, i politici si propongono come semplici gestori dell’esistente. È chiaro allora che se la politica coincide con l’economia di mercato, e se la liceità coincide con la realizzabilità tecnica, non c’è spazio per porre domande che riguardino il senso della vita. Le nuove generazioni dovranno rinunciare a ogni pretesa che riguardi valori non economici e non egoistici. Se questo è l’orizzonte proposto, non possiamo stupirci della loro rinuncia all’impegno politico.

Vivere la vita

«Non lavoro ancora – mi scrive, Paola, madre di due bambini piccoli – ma, citando un vecchio film di Nanni Moretti ti dico che «giro, faccio cose, conosco, vedo gente, incontro»… Vivo di precarietà, di occasioni, ma anche di aperture nuove che ancora non hanno forma ma sento che ci sono… Non dispero e, soprattutto, mi sento piena, quasi avessi un altro figlio in grembo, Beppe…

Colloqui al momento niente, ma ci sarà spazio, ci sarà… So che mi aspetta una svolta, che si dipanerà dalle mie mani come creta che prende la forma dopo essere stata molto lavorata, dopo aver dato tanta e tanta aria, respiro, amore, intenzionalità libera e fantasia. So anche di creare, in questo periodo, come persona, un certo sconcerto.

Chi vive di sicurezze non riesce a capire certe scelte di libertà. So di fare da specchio a molti che non riescono ad andare oltre il lamento, oltre la stanchezza, oltre l’acquisizione di posizioni consolidate.

Pensa che parlando con me, un paio di persone hanno cominciato a piangere. Altri amici/amiche, preferiscono evitarmi. La cosa mi ha colpito e mi stava gettando nella malinconia, ma ho reagito subito e con forza. Ora sono più tranquilla, certa che la crescita, ogni crescita, non può che passare attraverso il cambiamento in prima persona… non significa essere incoscienti, la fiducia è un’altra cosa.

A volte ho una grande voglia di piangere… ma è un pianto fecondo, che serve a irrigare la stanchezza che è tanta, che sa di non attendere risposte, che riconosce con umiltà che si vive di fronte all’inedito, ogni giorno».

La reazione al nichilismo, come si può capire da questa testimonianza, è la verità della vita quotidiana, l’esempio che ciascuno può dare.

Confronto e dialogo

La prima rivoluzione culturale di cui ha bisogno questo paese è la verità del confronto, è l’apertura dello spazio pubblico ai dilettanti della vita che praticano la fatica di lavorare, di insegnare, di educare, di amare e di soffrire. Facciamo parlare i giovani, gli operai, le casalinghe, gli anziani, i malati. Coloro di cui tutti parlano a sproposito. Smettiamola con il nichilismo della fiction e con la semplificazione opportunistica degli schieramenti politici.

Nel dialogo semplice e comune le parole sono ancora pesanti, perché chi le pronuncia ne vive il significato incarnandole. Smettiamola di parlare di onestà in astratto e mostriamo invece, cosa dicono e fanno gli uomini onesti. Solo così i giovani sapranno vibrare di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale.

Dare a un uomo la parola, diceva don Milani, è già fare un altro vangelo. Ispirarsi al Vangelo significa, infatti, avvicinare la Parola alla vita, è liberazione della coscienza.

La coscienza non è il prodotto delle strutture, ma è essa stessa l’uomo, in cui si genera e si scatena il cambiamento globale.

Se non si cambiano le strutture la società non cambia, ma se non cambiano le coscienze il cambiamento delle strutture non avverrà, e se avverrà, non cambierà la società.