Tra genitori e figli un difficile equilibrio
«Lasciate tranquilli quelli
che nascono.
Lasciate spazio perché possano vivere.
Non preparate già tutto pensato.
Non leggete a tutti lo stesso libro.
Lasciate che siano loro
a scoprire l’alba
e a dare un nome ai loro baci».
(Pablo Neruda)
La soffitta era magica. Si chiamava solaio. Solo ogni tanto era permesso ai bambini di andarvi. Lame di luce, coltelli di sole entravano da pertugi del tetto, nell’aria palpabile di polvere antica, nell’odore di tegole calde dal sole, su oggetti stranamente vecchi, perduti e conservati come mummie. Sembrava di camminare tra quelli che, tanti anni prima, avevano usato quegli oggetti. Eravamo più curiosi che impauriti. Ci stavamo pochi minuti, poi via. Si tornava più volentieri nel mondo di oggi. Che ormai è ieri.
L’aria si era fatta fresca, ma il cielo era così terso e il vento tanto leggero che decidemmo di continuare a stare all’aperto. Non ci interessava molto né la temperatura, né il paesaggio, ma approfondire e sviluppare alcuni discorsi.
Si parlava di educazione e di famiglia. Discutevamo sulla dimensione etica del notissimo brano della Bibbia: «L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola» (Gen. 2, 24), decisamente orientato ad affermare che la fuoriuscita del figlio dalla famiglia d’origine, al fine di formarne un’altra, è legge originaria dell’esistenza umana.
Mi venne in mente, allora, una cruda storia, raccontata da Giuckel Hameln, commerciante ebrea vissuta in Germania tra la fine del Seicento e i primi del Settecento. Il racconto aveva come protagonista un passero che doveva mettere in salvo i suoi tre piccoli, trasportandoli con fatica al di sopra di un braccio di mare tempestoso. Li aveva portati in volo uno per volta. A tutti e tre aveva posto la stessa domanda: vedi quanto penare faccio per te, cosa mi dai in cambio? I primi due dissero che sicuramente quando sarebbero stati vecchi, si sarebbero presi cura di lui. A queste parole il passero rispose con durezza, li tacciò di essere bugiardi e li fece cadere in acqua. Il terzo rispose diversamente, affermò che non sapeva se sarebbe stato in grado di prestare tutta la necessaria assistenza al suo vecchio padre, di una cosa però era sicuro: se si fosse trovato in circostanze analoghe a quelle, avrebbe fatto per i propri figli quello che suo padre stava ora facendo per lui. Il passerò approvò la risposta e portò in salvo il piccolo. Abbandonare il proprio padre e la propria madre significa riconoscere esattamente questa priorità. Una nuova famiglia nasce da questa inarrestabile spinta ad andare in avanti e in questo vi è anche qualcosa di crudele.
Darli alla luce, consegnarli al mondo
I genitori, almeno in Italia, tendono, oggi, a non generare mai fino in fondo i loro figli e a tenerli, magari, sempre nella pancia, nonostante i calci che quotidianamente ricevono. Le ragioni di simile comportamento possono essere diverse.
Ci sono casi in cui i genitori non riescono a uscire dalla loro visione del mondo, ritenuta l’unica vera e giusta. Il risultato sarà che i figli non matureranno alcuna esperienza propria e percorreranno o la strada che li prevede solo come una risposta alle attese dei genitori, o quella della ribellione, senza mediazioni, con conseguenti percorsi di devianza.
In altri casi i figli rappresentano, per i genitori, l’unica espressione in cui si sentono realizzati, per cui ogni difficoltà che i figli dovessero incontrare costituisce una messa in crisi della loro identità.
Infine i pericoli del mondo, dai pedofili alle cattive compagnie, dalla facilitazione sessuale ai rischi della droga, attivano nei genitori un sentimento paranoico di iperprotezione che, se non castra i figli, certamente li rende inidonei ad affrontare i problemi che nella loro crescita inevitabilmente incontreranno.
L’infanzia, periodo prezioso di educazione ai sentimenti
Fondamentale è la presenza e il rapporto dei genitori nei primi anni di vita, durante i quali nel bambino si forma (o non si forma) definitivamente quel nucleo caldo che si chiama «fiducia di base». Una volta acquisita, questa fiducia, va poi esercitata affinché non si estingua. Tale esercizio non può avvenire in un clima di iperprotezione, ma piuttosto in un contesto che preveda anche conflitti e difficoltà.
Paradossalmente, a me sembra che molti genitori facciano esattamente il contrario. Non curano i bambini con la loro presenza e con il dialogo nei primi anni di vita, limitandosi a riempirli di giochi, che stanno al posto dei sentimenti e dei dialoghi mancati, facendosi iperprottetivi poi, quando, a partire dai sei anni, i bambini dovrebbero incominciare il processo di socializzazione extra familiare, e questo soprattutto nella scuola.
Oggi occorre tener conto che i ritmi di vita degli adulti rendono più difficile la relazione educativa e genitoriale. Non si ha più il tempo di riflettere, di valutare dentro di sé come reagire di fronte agli atteggiamenti dei figli. Manca il tempo del dialogo tra genitori sulle questioni educative.
Si va alla ricerca di una visione comune senza la fatica della sua costruzione, come se dovesse sorgere magicamente, senza conflitti, dall’amore dei coniugi. Sono ancora insufficienti gli spazi di condivisione, tra genitori, dei problemi che sono di fatto connaturati all’educazione, mentre si tende ancora a difendere l’immagine dei propri figli, qualsiasi comportamento abbiano, per paura di essere giudicati dei «cattivi genitori». C’è tanta confusione pedagogica, tra ascolto del bambino e soddisfacimento immediato dei suoi desideri-capricci.
Disorientamento e spinta individualista
Qual è la causa scatenante di tale smarrimento educativo? È possibile liberare i bambini dall’esagerata tutela familiare per avviarli all’emancipazione, compatibile con le loro risorse?
È sempre più difficile cercare di interpretare le nostre società, evitando di cadere in valutazioni pessimistiche o, peggio ancora, velate di facile moralismo. Siamo frastornati da un’etica strisciante, che affonda il suo dogma nell’esaltazione del corpo, nell’esasperazione estetica dell’essere giovani a ogni costo, ma insieme siamo anche illusoriamente rinfrancati da un rigurgito fondamentalista, che rincorre modelli morali pericolosamente intransigenti e acriticamente conservatori. Si vive come strattonati da spinte contrapposte, finendo per rifugiarsi sempre più in un privato auto referenziale.
Un mondo, il nostro, che si lascia vivere e che si rifugia in un individualismo di fondo, secondo il quale ci si può commuovere per pochi secondi per le tragedie del mondo, per le ingiustizie sociali, per le sofferenze degli altri, ma poi, alla fine, si è ricacciati nei confini angusti di un universo privatizzato, nel quale i problemi dell’individuo assumono un rilievo assoluto.
Oscuramento di linguaggi condivisi e narcisismo
Ciò che tutti noi siamo chiamati a fare sempre di più, all’interno dei processi sociali di globalizzazione, è di rimodellare, ricostruire, reinventare e trasfigurare noi stessi. La nostra è l’era del nuovo individualismo.
Individualismo che va connesso all’indebolimento delle tradizioni e dei linguaggi culturalmente condivisi, alla destrutturazione cioè, di gran parte delle forme simboliche che, fino a non molto tempo fa, erano in grado di offrire certezze al singolo, dandogli la possibilità di vivere la propria esistenza all’interno di piste socialmente riconoscibili. Il matrimonio, ad esempio, era una delle forme di relazione interpersonale più condivise, un approdo scontato per molti. Anche il celibato, pur essendo un’opzione minoritaria, si iscriveva in una tipologia chiara e socialmente identificabile.
L’ideologia individualistica si muove, invece, a partire da condizioni di oscuramento delle tradizioni e si rinforza, poi, grazie alla nuova cultura privatistica, che spinge le persone a cercare una sorta di autorealizzazione narcisistica, escludendo dalla propria vita emotiva gli altri e il mondo esterno.
L’ospite inquietante. Il nichilismo
Gli effetti di questo individualismo, di questa assenza di valori simbolici sui processi educativi, sono disastrosi. C’è vuoto e angoscia. L’unico valore simbolico è il denaro e i beni che con esso si possono acquistare.
Prendendo spunto dall’ultimo libro L’ospite inquietante. I giovani e il nichilismo di Umberto Galimberti, si possono scoprire le conseguenze più negative di questo malessere generale. C’è un ospite inquietante che si aggira, penetra, confonde i pensieri, intristisce le passioni, penetra nei sentimenti di tutti e soprattutto dei giovani.
Questi ultimi soffrono dell’incapacità di interpretare le loro emozioni. Non riescono a chiamare i loro sentimenti per nome. L’emozione fa paura perché è sentimento, è relazione e a vivere la relazione non siamo stati educati. C’è una cancellazione delle prospettive future, basta pensare al precariato nel lavoro. I giovani soffrono di nichilismo, disincanto del mondo, senza miti, senza Dio, senza trascendente, senza valori condivisi. Prevale l’inquietudine, il ribellismo, l’angoscia, la seduzione della droga (anestetico delle passioni e della voglia di vivere). Un malessere, conclude Galimberti, non di natura psicologica, ma culturale. Si vive nel branco, isolati. Chi non incontra nessuno nella vita, è difficile che capisca chi è un altro.
Recuperare il pensiero e il sentimento
Si possono individuare rimedi possibili? Alla domanda: «Il nichilismo dei giovani è solo negativo?», Carlo Molari risponde che «il vuoto si può riempire». Quindi il nichilismo potrebbe avere connotati positivi nel senso di indurre domanda di riempimento, di apertura verso qualcosa che dobbiamo essere capaci di utilizzare.
Credo, però, che si guarirà dalla malattia dell’individualismo, di cui più o meno tutti siamo colpiti, solo con l’aiuto di nuovi antibiotici culturali, altrimenti si cronicizzerà in forme di sempre più sterile autoreferenzialità.
Oggi prevale nel nostro vivere assieme un’incapacità di pensare. Ha valore profetico quanto diceva qualche anno fa il Card. Martini: «Il problema per la Chiesa oggi, non è quello tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti». Un tempo, non lontano, i valori erano il pensare, la cultura, il sociale, oggi sembra che gli ideali siano lo sballo e il non pensare.
Occorre partire dalle nostre sensibilità, chiederci quanto siamo autentici. La cosa più brutta per un giovane è l’ipocrisia. Oggi la politica, ma anche alcune manifestazioni apparentemente di fede, sono il trionfo della falsità (vedi il Family Day, dove i grandi difensori della famiglia sono proprio quelli che hanno strapazzato la propria famiglia).
Nel frattempo le ombre si erano allungate per poi, a poco a poco, scomparire nelle tenebre. Alzammo gli occhi e vedemmo la volta celeste riempirsi di stelle. Il sole era tramontato da tempo, la luna ancora non era sorta. Sulla terra dominavano le tenebre, in cielo vi erano piccoli bagliori di luce.
Mi sono ritirato, in silenzio, da solo, per approfondire tutti i discorsi fatti. Oltre al tormento e al senso di stupore, mi accorgevo di un segno luminoso che arrivava dal di fuori. Ho voluto seguirlo anche se non sapevo dove mi avrebbe condotto. Era qualcosa di diverso dalla proiezione dei miei desideri e dalla oggettivazione dei miei bisogni. Non era una risposta, ma una chiamata. Il cielo da quel momento mi appariva luminoso.
«L’uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa di indistruttibile dentro di sé» (F. Kafka).