Il mito del creditore

di Stoppiglia Giuseppe

Il deserto emozionale della società tecnologica

«Gli uomini, anche se devono morire,
non sono nati per morire
ma per incominciare».
H. Arendt
«La società perfetta
è solo un passo avanti a noi,
a patto di sapere dove metti i piedi».
Anonimo

Lo sheikh Ibn Abi Zeid al-Qairawani diede cento monete d’oro al maestro che aveva insegnato a suo figlio un sesto del Corano. Il maestro esclamò: «È molto». Lo sheikh tolse il ragazzo dalla sua scuola, spiegando: Costui ha una grande opinione del denaro. Il devoto non deve mai pensare che il compenso materiale di una prestazione spirituale sia grande.

È una fredda giornata d’autunno. Siamo in Alto Adige, dentro una valle lunga e bella in provincia di Bolzano. Nel lato nord di un piccolo borgo, immerso tra boschi di abeti e faggi, un’automobile di colore blu è parcheggiata da ore, sotto una pioggia battente, sul lato destro di una strada stretta e sterrata. Il motore è acceso, i fari spenti. È quasi buio quando arriva un fuoristrada della forestale per il quotidiano giro di controllo.

Scende, con passo agile e veloce, un uomo robusto che sembra ancora più grosso per il giaccone verde/scuro che indossa. Si avvicina insospettito all’auto e vi scorge all’interno, inorridito, i corpi esamini di tre giovani. In evidenza, sul cruscotto della macchina, un foglietto di carta bianca dove, con un pennarello rosso, una mano sicura ha scritto: Abbiamo voluto morire assieme perché questa vita non ha senso.

Non erano amici

Travolti dalle novità che l’informazione ci rovescia addosso, non troviamo più il tempo per cogliere il senso simbolico delle azioni e dei fatti, per cui i nostri giudizi sono sempre sbagliati: vediamo il segno e non la realtà. Questo suicidio è stato presentato dai mass media come un pezzo emozionante, lasciandoci il ruolo di spettatori. Eppure i tre giovani avevano lasciato un messaggio chiaro, non quello scritto sul pezzo di carta, ma quello chiuso nel senso simbolico del loro gesto.

Erano amici perché si trovarono d’accordo in una decisione: quella di morire. Hanno voluto morire uno accanto all’altro perché non volevano che la morte li separasse. In comune avevano dei desideri (il divertimento, il sesso, lo sport, il ballo, le corse di rally) e nient’altro. Forse si stimavano perché ognuno era economicamente autonomo. Non avevano il gusto del lavoro, non amavano quello che facevano, ma il lavoro permetteva di soddisfare le loro voglie.

Non erano amici perché nessuno dei tre si sentì «altro» per il suo vicino. Nessuno di loro si sentì necessario per l’altro. Nessuno riuscì a far sentire all’altro necessaria l’esistenza, perché nessuno dei tre aveva bisogno che il suo vicino esistesse.

Guardavano avanti e vedevano solo il vuoto, non erano stati educati a guardare di fianco. Avevano raggiunto l’autonomia economica e l’indipendenza dalla famiglia, non la libertà.

Non sentivano che la speranza era la svolta necessaria per cogliere il senso dell’esistenza personale e della storia comune. Non sapevano che sperare solo per se stessi, o magari sperare e non agire, significava non sperare. Erano immersi, come tanti altri giovani, in una cappa mentale, che li lasciava passivi e isolati. La vicinanza fisica, senza una comunicazione profonda, era una rivelazione palese d’assenza dell’amicizia. Per diventare amici, infatti, non basta accostare una pelle a un’altra pelle.

Proiettati nei desideri, separati dalla vita sociale

Trovandosi per soddisfare i desideri condivisi, ognuno dei tre si è sentito proiettato nel proprio desiderio esclusivo e, una volta fuori da sé, non è stato più in grado di abitare in se stesso. L’uno non poteva bussare alla porta dell’altro, perché l’altro non c’era, era fuori.

Avevano rotto il cordone della dipendenza familiare, non per salvare la loro esistenza, ma perché i desideri li avevano risucchiati fuori. La separazione non era stata una scelta, ma una frattura. Se il legame sociale è il fondamento sacro della coesistenza umana, è la comunione che si determina quando si attivano le relazioni umane, è inevitabile che una sua rottura produca un impoverimento dell’identità degli individui.

L’episodio dei tre giovani mi ha costretto a riflettere lungamente sulla meccanica dei desideri e sulla pedagogia dell’amicizia, in considerazione del fatto che oggi ci troviamo di fronte allo scarso senso di appartenenza nei valori condivisi da parte dei giovani. L’amicizia può essere fondata solo sull’identità; il consumismo, al contrario, ha bisogno di rendere più efficiente possibile la meccanica dei desideri.

Il gesto dei tre giovani, provocatoriamente, si potrebbe definire più un assassinio che un suicidio. Il killer va individuato nella stessa frammentazione e dispersione dei rapporti collettivi, incapaci di aprire le persone alla scoperta della propria identità. L’io, risucchiato dai desideri, non torna più a casa, è come incatenato, obbediente all’idolo consumistico che invia i suoi spiriti folletti sulla terra. Un corpo tocca l’altro, ma il corpo è disabitato.

Questo tipo di civiltà un risultato l’ha raggiunto: diffondere a livello di massa quella che, in passato, era una caratteristica di pochi e cioè l’aridità del cuore, frutto velenoso di una vita oziosa. È questo uno dei motivi per cui i giovani sono così poco grati a quanto è stato loro elargito.

Pensare, come fanno tanti, che l’attuale organizzazione della scuola possa convertirsi alla rieducazione del cuore, non solo è ingenuo e velleitario, ma falso, perché la scuola italiana è il luogo dove l’oziosità dei giovani regna sovrana. È vero che lo studio è in origine disciplina della mente, che si accompagna alla disciplina del corpo che è il lavoro, ma quest’ultimo si occulta tra le pieghe della società, scomparendo. Così lo studio si svuota, diventando una specie di fuga di massa dal lavoro.

L’inerzia di questi ragazzi non può essere fugata con un richiamo all’ordine (c’è chi vorrebbe tornare a uno studio più severo), perché a un cuore inaridito può essere salutare un rimprovero anche duro, ma a condizione che si sappia cogliere cosa può ravvivarlo.

Il deserto emozionale che affligge i nostri giovani, un deserto che nessun ascolto psicologico può ridurre, è, in primo luogo, frutto della radicale deprivazione d’esperienza emotiva in cui sono cresciuti.

Le tecniche di comunicazione ottundono la sensibilità sociale

Fin dall’infanzia la loro vita è gestita in condizioni artificiose, dentro spazi e tempi rigorosamente programmati. Il rapporto con la realtà è mediato da apparati tecnici (Tv, Internet, cellulari), perciò quello che si conosce dallo schermo, sovrasta abbondantemente quanto si esperimenta con i propri sensi. Gli allettamenti della pubblicità e le rassicurazioni della tecnica, contribuiscono poi a creare un mondo angusto, che non soddisfa alcuna aspirazione profonda e da cui appare impossibile uscirne.

Squarciare le pareti anguste di questo mondo chiuso dovrebbe essere l’obiettivo prioritario di chi educa, sapendo che nessun metodo libresco è utile in tal senso. L’inerzia e la svogliatezza di cui spesso i giovani danno prova nelle scuole, testimonia che quanto vi si svolge non è altro che una copia sbiadita di quel virtuale in cui si trovano immersi ogni giorno.

C’è comunemente, in tutte le agenzie educative, l’esaltazione e l’affermazione della singolarità, vista come conquista d’emancipazione da ogni vincolo. Tutte le persone sono messe in un processo d’individualizzazione, che accentua la separatezza dal gruppo, dove il singolo, privato dall’idea del limite, interpreta la libertà come assenza dai legami di rapporti sociali e affettivi.

Appena una società si atomizza, si perdono tutti i legami che consentono un’elaborazione collettiva e si scava un vuoto, riempito poi dall’ideologia dei media. La massificazione apparentemente esalta l’individuo, ma distrugge la persona. L’individuo diventa un numero, un fatto quantitativo, mentre la persona è una specie di mistero, di vissuto, di trascendenza.

Dentro una vita senza passato e senza futuro nascono i mostri

Il giovane vive così una specie di mito del creditore. Non sente nessun debito verso la memoria e le vecchie generazioni, rivendica diritti sul futuro ed entra in rapporto con gli altri solo attraverso calcoli razionali per combinare l’utile reciproco. Appiattito sull’esistenza quotidiana, senza nessuno spazio di trascendenza.

Il risultato? È una società senza amore, fatta di discontinuità, di tante storie, senza una storia comune. L’individuo, privo di legami e di memoria, sentendo di vivere in un universo in frantumi, esposto ai tanti rischi della società, passa allora dalla libertà sconfinata alla domanda di sicurezza dentro nicchie di solitudine, dove si rinchiude, spinto dalla paura indotta dalla globalizzazione pervasiva e incontrollabile.

L’obiettivo inconsapevole di una bieca manipolazione dell’immaginario sociale è proprio quello di allontanarci da una possibile vita interiore, dal tranquillo sostare presso di sé per interrogarci su quello che facciamo. È il trionfo dell’esteriorità, che porta alla persecuzione dell’estraneo e dello straniero, perché nell’immaginario autarchico non c’è più spazio per qualcuno che sia diverso dal proprio io.

Si arriva così alla negazione della politica, a un’involuzione della sensibilità sociale, ben descritta da Bertold Brecht: «Un analfabeta politico è tanto animale / che s’inorgoglisce / e gonfia il petto / nel dire che odia la politica».

La politica comincia quando si dà il primato al bene comune, mentre della politica (non solo sul versante del cosiddetto berlusconismo) si fa un affare, nel senso che si fatica a distinguere tra la politica come professione e la politica come vocazione. Com’è stato giustamente scritto: di tutte le vocazioni la politica è la più nobile, di tutte le professioni è la più vile.

Uscita di sicurezza

Come usciamo da questo appiattimento culturale e valoriale? È una domanda forte e provocatoria. Il demo-populismo di Berlusconi e l’animalità possessiva della Lega, che stanno inoculando nel sistema circolatorio degli italiani il veleno dell’odio verso lo straniero, sono una malattia seria di una società che non ha più anticorpi contro l’indifferenza e l’ottusità generale.

Forse il razzismo è più superficiale che sostanziale – scrive Pietro Barcellona – ma l’immaginario degli italiani è malato dell’idea persecutoria che solo lo straniero è il male. Occorre affrontare e curare questa patologia, perché noi italiani stiamo male per ragioni nostre, per la corruzione, per l’illegalità, per il degrado e vogliamo liberarci delle nostre responsabilità colpevolizzando gli immigrati. Tutto ciò è figlio di una disperazione muta, di una sfiducia totale, di una dissoluzione dell’idea di persona come nucleo sacro e inviolabile della vita collettiva.

Possono uscire da questa disgregazione e frammentazione le future generazioni? Sicuramente, se riusciremo a generare un cambiamento graduale, una rivoluzione spirituale ed etica. Dobbiamo smettere di credere che la realtà sia quella esibita in televisione e sentire come priorità personale il compito di aver cura della vita comune. Dobbiamo cercare di costruire un polo d’attrazione, una speranza che conduca oltre i moventi banalmente egoistici di natura economica o quelli devozionistici e ideologici di una religione che decora la vita ma la lascia intatta nei suoi egoismi.

La speranza – scrive Roberto Mancini – è un sentimento e una visione. Essendo però, anzitutto la risposta all’attrazione del Bene, essa vive se si traduce in vita nuova e resiste fin quando sarà chiaro che ogni anelito di liberazione non è stato invano.