La cultura della pace

di Panikkar Raimon

La sfida dell’epoca moderna consiste nel passaggio da una cultura della guerra (che spesso viene dissimulata sotto espressioni quali «competività», «dobbiamo essere i migliori») a una cultura della pace. Ma pace non vuol dire soltanto assenza di guerra, bensì una nuova cultura, una crescita dello spirito e della vita umana le cui radici non affondano nella competitività e nella guerra. La cultura della pace è la cultura della diversità, che in termini filosofici possiamo definire pluralismo.

Questa cultura non si fonda sul potere, ma sull’autorità. Vi è una differenza essenziale fra potere e autorità. Potere è ciò che si ottiene grazie al fatto di disporre di più denaro, di maggiori conoscenza scientifiche moderne (sinonimo di controllo) o perché si è più forti. L’autorità proviene invece dagli altri o, come si dice in un regime democratico, viene conferita. Io riconosco la tua autorità perché, come vuole la saggezza della parola stessa, tu mi fai crescere (ab augendo). La cultura della pace si fonda sull’autorità, non sul potere.

I suoi mezzi non possono essere, pertanto, né il denaro, né le conoscenza specialistiche, né il potere, ma l’autorità. Quest’ultima, a differenza del potere che può essere proprietà privata e quindi un fatto individuale, è invece relazionale, ovvero personale.

La cultura della pace presuppone la cultura dello spirito e, in un modo speciale, la cultura della parola. Raimon Llull ci dice che la natura ha fornito a tutti gli esseri mezzi di difesa e di attacco. Alcuni hanno la pelle dura come una corazza, altri una potente dentatura, altri artigli per difendersi e sopravvivere, in accordo con le leggi della natura. L’uomo scade allora al rango delle bestie quando imbraccia le armi, che sostituiscono le sue unghie e i suoi denti, che sono deboli. Qual è dunque il mezzo, lo strumento che la natura ha fornito all’uomo per difendere i suoi diritti? Secondo Llull è la lingua con la quale egli parla. È la retorica degli antichi, l’arte del saper parlare, di presentare le cose in questo dialogo dialogico in cui la dinamica della parola si sviluppa fino a riscuotere il consenso. Potremmo chiamarla logocrazia: la cultura della parola, quella parola che spezza il silenzio, che crea mentre viene proferita, che non si limita a ripetere ciò che è stato detto a scuola, alla televisione o che è scritto nei dizionari.

La storia di questi ultimi seimila anni di esperienza umana si può riassumere nella scoperta del monoteismo, detto con una semplificazione che meriterebbe di essere convenientemente sviluppata. E questo monoteismo, in ultima analisi, consiste nella credenza che esista un centro assoluto, modello di ogni ordine. In esso noi abbiamo la chiave per comprendere le cose e, naturalmente, chi possiede la chiave ha il potere. Il monoteismo si è concretizzato in sistemi monolitici (monarchia, monismo, verità assoluta, sistemi unici di validità universale, eccetera) che hanno favorito la pretesa di globalità e di assoluto. La grande sfida attuale consiste nel trasformare questi sistemi monolitici e nel passare dalla melodia alla sinfonia, dal monoteismo alla trinità, dal monismo al non-dualismo.

Nel nostro mondo di matrice ellenica, il simbolo che potrebbe esserci utile sarebbe il passaggio dall’arena all’agorà. L’arena è il luogo in cui combattono i gladiatori. L’agorà invece è lo spazio in cui si parla, ci si riunisce, si discute, e ci viene presentato, se vogliamo usare questa parola, il nemico. Con lui parliamo, lo accettiamo e cerchiamo di vedere chi dei due, dei tre o non importa quanti, abbia ragione. L’agorà ha a che vedere con l’assemblea e la chiesa. Bisogna offrire di nuovo questi spazi in cui gli uomini possono parlare senza timore. Le parole non sono solo transazioni che si possono effettuare attraverso internet: sono il dono che l’uomo possiede e che gli permette di vivere una vita piena.

Permettetemi di terminare con un aneddoto. Il cugino di uno dei miei studenti era andato a fare l’insegnante in un villaggio africano. Ma non voleva insegnare quel che sapeva, perché lo considerava un atto colonialista. Accettò soltanto di tenere corsi di ginnastica. Un giorno si presentò ai ragazzi con una scatola di caramelle. L’attenzione di tutti era rivolta a questo giovane alto, bello, grande. Il giovane americano disse loro: «Vedete quell’albero laggiù, a cento o duecento metri? Bene, io conterò fino a tre e voi vi metterete a correre. Chi arriverà primo si meriterà questa scatola di caramelle». Gli otto o nove ragazzi che aveva attorno rimasero perplessi e poi, quando lui contò fino a tre, si strinsero per mano e corsero insieme: volevano condividere il premio. La loro felicità stava nella felicità di tutti. Questi ragazzi ci offrono forse uno spunto per dare nuove fondamenta alla vita democratica.

Raimon Panikkaràda I fondamenti della democrazia , Edizioni Lavoro, 2000