Pippo Morelli, un Maestro del nostro tempo

di Stoppiglia Giuseppe

Una memoria che educa

«Lo sviluppo non può andare
contro la felicità:
deve essere a favore della felicità umana,
dell’amore sulla Terra,
delle relazioni umane,
della cura dei figli, dell’avere amici,
del non privarsi dell’indispensabile».
José Mujica,
presidente dell’Uruguay

«Non vedremo sbocciare dei santi
finché non ci saremo costruiti dei giovani,
che vibrino di dolore e di fede,
pensando all’ingiustizia sociale».
Lorenzo Milani

Bologna

L’occasione di incontrarlo fu, nel 1977, il convegno internazionale sul tema Il sindacato e l’Europa, promosso dalla Cisl di Bologna. Vi partecipavano intelligenze illuminate e presenze eccellenti. Conoscevo Pippo Morelli solo di fama, da almeno dieci anni, da quando mi ero iscritto alla Cisl Scuola.

Era il sindacalista che aveva promosso le 150 ore, il fondatore di una scuola per l’educazione degli adulti, ispirata al modello di Paolo Freire, lo spericolato recidivo di innumerevoli missioni (vedi richiesta all’arcivescovo di Milano, Montini, di appoggiare lo sciopero degli elettromeccanici, durante la Messa di Natale del 1962, il riavvicinamento del sindacato alle Acli, agli intellettuali della «Cattolica», ecc.).

Al convegno lo notai incrociando il suo sguardo di sfuggita. Mi era parso di riconoscerlo: è lui, non è lui: Pippo Morelli! «È un uomo, Uomo!» – dicono le ragazze entusiaste della segreteria del Convegno a Villa Pallavicini, ma lui passa ignaro, umile in tanta gloria, coperto già dall’amorosa leggerezza di questa fresca ammirazione giovanile. Alto, snello, due occhi chiari e luminosi, il viso cotto dal sole, indossava una giacca-maglia con ostentata indifferenza.

Nel dibattito che segue, si accende, si infiamma, continua a discutere animatamente anche nei corridoi. È un uomo di passione, si spende senza risparmio, trascina.

Durante il break sembra non fare attenzione ai cibi e alle bevande del raffinato buffet. Ed è subito disponibile alle mie domande. «Sei sempre così pessimista sul cambiamento degli uomini e del mondo, come dicevi nel tuo intervento?».

La sua risposta è cortese e appassionata: «Il mio è un pessimismo attivo. Se uno pensa che tutto si rimetta a posto automaticamente, incrocia le braccia e non fa niente. L’ottimismo può essere narcotizzante: anche la disperazione, se non diventa rivolta, che apra un varco alla speranza. Il problema, oggi, è globale e sta nel rapporto tra etica e politica. La politica dovrebbe ridare visibilità all’etica peràessere credibile». Lo ringrazio e lui mi ringrazia. Da quel momento siamo diventati amici inseparabili, fratelli, compagni, complici e soprattutto liberi, liberandoci assieme.

Ricordi

Quando Chiara, la figlia maggiore, la mattina del 21 giugno scorso mi confermava per telefono la scomparsa del suo indimenticabile papà, da vent’anni imprigionato da una malattia che lo aveva reso presenza muta, sempre accudito dai suoi cari, mi tornarono subito vive immagini bellissime, sospese nella memoria per anni, ma che non avevano perso il loro profumo.

Eccolo, Pippo, così composto, riservato, che passeggia per Rua Gurupi, a GrajaÁš, Rio de Janeiro, con un libro aperto tra le mani, apparentemente distaccato, ma sempre gentile. Lo vidi sciogliersi all’improvviso, col volto mosso da una forte commozione autentica, quando Sara, la figlia di Vera, la vedova che abitava e aiutava Maria nella casa di Macondo, gli diede un bacio, stringendogli le sue piccole braccia attorno al collo, con tutta la sua grazia infantile. Ho visto, in quella commozione, tutta la tenerezza e la dolcezza dell’uomo e il suo immenso desiderio di dare paternità.

Chi era Pippo

Pippo è stato un sindacalista sempre con la schiena dritta, un uomo forte e resistente, talmente trasparente e vero da diventare scomodo, come tutti i profeti. Sì, perché Pippo è stato ed era un profeta, anche nel sindacato, per la sua genialità e la sua capacità di leggere i segni dei tempi, con l’occhio innocente di un bambino scanzonato.

Un uomo dipinto di cielo, che si è macchiato di terra per farsi racconto di Dio in mezzo ai poveri, agli ultimi, i senza nome e i senza voce.

Per alcuni il suo atteggiamento era imbarazzante, perché considerato provocatorio, ma la sua umiltà e la sua immediatezza lo rendevano una persona disarmata. Essendo uomo libero, attirava a sé i semplici e i puri di cuore, un poeta della pedagogia sociale. Se aveva rotto con il sistema capitalistico, non l’aveva fatto in modo violento o arrabbiato, ma col suo sorriso ironico e dissacrante. In questo sorriso c’era tutta la sua passione.

L’idea dominante

Pierre Carniti, collaboratore e amico, ha scritto, a ricordo della sua lezione di vita: «Secondo Pippo Morelli l’idea dominante della cultura liberista, quella secondo la quale le nostre società e il mondo devono essere divisi in entità economiche in contrapposizione e in competizione, perché questo è ciò che la loro natura richiede, è una pura e semplice sciocchezza. Le economie competitive, a cui vengono subordinate le esigenze sociali, esistono perché le forze dominanti hanno deciso di dare loro questa forma. La competizione è un surrogato sublimato della guerra, ma la guerra (economica, finanziaria, fiscale, sociale) non è affatto inevitabile. Si può anche decidere che le società progrediscono di più se si fondano sulla solidarietà e la cooperazione e quindi sul contrasto alle disuguaglianze».

La forza della sua denuncia e del suo impegno esprimeva, quindi, tutta la propria efficacia nell’assenza di rabbia, nell’assoluta mancanza di compiacimento nel denunciare l’ingiustizia, ma nella presenza dominante di un senso francescano dell’amore. Il suo obiettivo era puntato sul debole, che lui accarezzava, con la mente e con il cuore…

Alla scuola del vangelo

La sua formazione giovanile ha ricevuto le basi dallo scautismo, è cresciuta alla «Cattolica» di Milano, con la laurea in scienze politiche, dove ha conosciuto il prof. Mario Romani, che poi ha voluto subito con sé, come assistente, all’Ufficio Studi della Cisl a Firenze.

L’incontro con la Cisl è stato determinante per la vita futura di Pippo, portandolo a una scelta precisa, di parte: i lavoratori. Ha sancito così la rottura con il capitalismo.

Una rottura, la sua, che avrà le stesse caratteristiche di quella operata dagli ordini mendicanti nei confronti del feudalismo e del regime feudale della Chiesa nel Basso Medioevo. Aveva la stessa forza evangelica, non ideologica, di un ritorno al vangelo, che lo avrebbe portato poi, necessariamente, alla lotta contro le sovrastrutture collettive, accettandone i disordini sociali conseguenti, di cui i poveri non sono gli attori (anche se vengono accusati di esserlo), ma le vittime.

«Se oggi stiamo costruendo il Regno di Dio, perché non possiamo aggiungere narrazioni e parole alla Sacra Scrittura?» – mi chiese un giorno, spiazzandomi. Cercava un pretesto, la possibilità di un’evangelizzazione universale e senza confini, una parola da poter dire alla Chiesa. Voleva un confronto con la gerarchia cattolica. Il suo è rimasto un rapporto faticoso con la gerarchia, ma senza rottura, né rifiuto, sempre nella libertà: «Non senza, non contro, non sotto», come richiede la libertà evangelica impegnativa.

Profondamente laico, profondamente cristiano

In Brasile si era entusiasmato del progetto pastorale e della disarmante semplicità di dom Pedro Casaldáliga, un vescovo della Teologia della Liberazione, impegnato con i contadini e i popoli indigeni, a São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso. «Sperava in una Chiesa povera con i poveri», diventato il puntiglioso obiettivo, ora, di Papa Francesco.

La sua voce e le voci di tante persone rappresentavano una fraternità orizzontale, non piramidale, di credenti pensanti, presenti al loro tempo, orientati dal vangelo. È un modo concreto di appartenere ai filoni della cultura italiana, un modo civile e morale, laico e cristiano, mai rumoroso, non ricco e sicuro, ma costante e serio negli anni e nei decenni. La fedeltà e la diffusione di una fraternità paritaria e libera, nella solidarietà e nella dedizione, è il punto d’arrivo che qualifica, nel tempo, le parole di questo Maestro di vita.

Sorprendente era la sua capacità di spiazzare. Riusciva a dare un taglio religioso a domande laiche e un taglio laico quando rispondeva a domande religiose. Un’autentica lezione di teologia narrativa, che resterà una sua eredità preziosa. Dai profeti dell’Antico Testamento, su, su, fino a noi,àcondivideva l’originalità non solo formale, di dire uomo per dire Dio e dire Dio per dire uomo.

Una risposta alla crisi del sindacato

Sempre attento alle accelerazioni della storia e ai cambiamenti in atto nella società, nel 1981 capì che una crisi verticale stava attraversando il sindacalismo europeo e italiano. Su quali obiettivi e contenuti doveva disegnarsi e con quali strutture organizzarci? Scegliemmo, allora, un viaggio di ricerca e di riflessione in Brasile, un paese nuovo, in ascesa vertiginosa.

Ritornammo ambedue con la stessa e dolorosa sensazione, vissuta dal popolo ebreo nel crollo della Torre di Babele. Netta è stata la scoperta della disfatta del modello di società dell’Occidente sviluppato; assieme, però, ci è arrivato anche un dono inatteso: il ritorno alla varietà dei linguaggi.

Il linguaggio unico è la volontà dei grandi inquisitori, la varietà dei linguaggi invece è la condizione necessaria per mantenere viva la nostra tensione verso un universale, che non ci renda schiavi.

Questa diversità è annunciata da Cristo, quando passa silenzioso tra la folla con un lieve sorriso di infinita compassione. L’accettazione e il rispetto della diversità, il dialogo continuo privo di pregiudizi per approfondirla, sono e restano una parte fondamentale dell’amalgama che unisce la folla a Gesù. Finché faremo scelte che conservino le diversità, la storia non finirà e ci sarà sempre la possibilità di dialogo.

Ora che qualcosa di irrevocabile è accaduto nella coscienza di molte persone, almeno lo spero, dopo la visita di Papa Francesco a Lampedusa, comprenderemo ancora più profondamente questo passaggio d’epoca.

Quel che resta

In certi momenti sembra che tutto si accanisca contro di noi, che l’equilibrio di ogni cosa si perda. Poi la vita si ricompone. È la sua forza. È la terapia del tempo. Si è soli con sé stessi sempre, in ogni situazione, nel dolore come nella gioia.

Puoi condividere, ma solo in parte e ci si trova, poi, come dopo una festa. Rimane il profumo, la scia, come la sequenza di un film: un tavolo con i segni del prima e la strana presenza del dopo, immobili. I bicchieri vuoti, le bottiglie, il pane, i discorsi incompiuti. Tutto rimane là come in posa, per una regia indiscreta e rarefatta. Sospeso per molto tempo.

In questi anni, caro Pippo, si è parlato di terremoti, di eclissi, di comete, di Ulivo alla prova, di carne impazzita, di violenze sui bambini, di gente che uccide e si uccide. Che sia questa la vita? un lungo elenco di cose?

«Mai a sottolineare il corpo di uno sguardo, il suo infinito che dura, nonostante tutto…».