La convivialità difficile (seconda parte)

di Turcotte Franí§ois

Vorrei qui riprendere alcuni dei temi accennati sullo scorso numero di “Madrugada”, sottolineando anche un’esigenza che spesso avvertiamo di fronte alla complessità delle situazioni o di alcune realtà nuove della nostra società. È bene diffidare delle semplificazioni eccessive rispetto ai problemi, così come una dose ancora maggiore di cautela va usata verso chi propone soluzioni nette e magari miracolistiche a problemi che sono, per loro natura, complessi e articolati.
Tuttavia va anche notato come alcuni punti di riferimento ci siano necessari per orientarci, sia dal punto di vista del comportamento pratico che in merito ad un giudizio sui fatti. Di fronte ad apporti e contributi di conoscenza che spesso ci capita di accogliere, leggendo un articolo o partecipando ad un’esperienza particolare, abbiamo bisogno di operare un certo discernimento, non solo rispetto ai contenuti e ai valori, ma anche per riuscire a calibrare la diversità dei livelli di competenza, di analisi e di fruibilità, anche immediata, delle notizie o delle proposte culturali che ci vengono rivolte. In altre parole, abbiamo l’esigenza di operare alcune meditate sintesi, che non pretendano di dire una parola definitiva su realtà molto diversificate e oggetto di continua attenzione da parte di specialisti di molti ambiti, ma che ci permettano di selezionare e raccogliere contributi disparati, fornendo ad un intervento educativo, sociale o legato al volontariato. A questa esigenza di sintesi si ispirano le seguenti considerazioni.

Una sfida “ovvia”

Il tema dell’interculturalità è una delle sfide decisive per il nostro tempo. Ciò può sembrare persino ovvio, ma l’ovvio è talvolta nemico del vero. Del resto è facile constatare come possa accadere che, mentre per un verso ci riconosciamo non ancora adeguatamente preparati ad affrontare tale tema che si impone, per altro verso vi siano degli slanci entusiastici in questa direzione, lodevoli sul piano delle intenzioni, ma non sempre del tutto consapevoli delle difficoltà di tale cammino. La rivista “Madrugada” ha fin dal suo inizio individuato il terreno dell’interculturalità come un suo spazio privilegiato e specifico, così come in tale direzione si muovono alcune recenti iniziative di “Macondo” e, in certa misura, il progetto complessivo dell’associazione.
Faccio questi richiami per segnalare l’esistenza di un “luogo comune”, nel senso più forte e più positivo del termine, che ci fa sapere di essere dentro una rete di riferimenti e di intenti ben chiari, sui quali però è sempre necessario ritornare e riprendere i fili di un discorso che ci unisce.
Un approfondimento, ricco di suggestioni, su cosa sia il dialogo interculturale è stato svolto da Enzo Demarchi sui numeri 9-10-11 di “Madrugada”, sotto la rubrica “Scambio alla pari”. Qui il tema dell’altro si lega a quello dell’identità culturale, attraverso una serie di riferimenti sul piano antropologico e letterario, per approdare poi, nel terzo intervento, ad una efficacissima esemplificazione di come il tema dell’identità e dello scambio siano variamente modulati nel caso della cultura latino-americana e di quella europea. Rimanendo pertanto a tale prezioso contributo, mentre mi preme ora tornare a quello che nel mio articolo precedente individuavo come un banco di prova per coloro che sostengono una prospettiva di interculturalità: la presenza di centinaia di migliaia di immigrati sul nostro territorio e l’esistenza, di fatto, di una società multirazziale.
Rispetto a questo fenomeno vorrei fare cenno ad un accostamento casuale, ma forse significativo della diversità di opinioni e di atteggiamenti: sulla prima pagina del “Corriere della Sera” di Venerdì 21 gennaio scorso, nell’angolo in basso a destra compariva una pubblicità dell’ultimo saggio di Furio Colombo, “Gli altri. Che farne”, dedicato in parte a questi temi e del quale diremo qualcosa in seguito. Sopra a quel riquadro, invece, c’era un articolo a firma di Ernesto Galli della Loggia, intitolato “La guerra delle fedi” e duramente critico rispetto alla prospettiva di dialogo interculturale. Per puntualizzare bene i termini della questione, non sembrino pedanti anche alcune osservazioni di carattere lessicale.

Una proposta velleitaria

Della Loggia sottolinea il carattere velleitario e ingenuamente illusorio di tale dialogo fra le culture, stante la loro inconciliabilità su punti decisivi, usando però sempre il termine “multiculturale”. Dal contesto e dalle argomentazioni, tuttavia, si desume che ciò che della Loggia considera impossibile non è tanto una prospettiva di “multiculturalità” quanto piuttosto di “interculturalità”. Per chiarezza, ma anche per non dare l’impressione che si stiano discutendo questioni troppo sottili, vorrei precisare riferendomi alle analisi che su tale tema ha svolto Antonio Nanni, sia sulla rivista “C.E.M. Mondialità” che in altre occasioni.
La “multiculturalità” non è un’intenzione o un atteggiamento, ma un dato di fatto, che può piacere o dispiacere, ma che non si può non riconoscere: in Italia, e da più tempo ancora in alcuni paesi dell’Europa occidentale, di fatto esistono e convivono culture diverse. “Interculturalità” è invece una prospettiva che, prendendo atto dell’esistenza di culture diverse, apprezza molto che fra di esse vi possa essere rispetto e tolleranza, ma mira a qualcosa di più: allo scambio di valori, alla reciprocità, alla possibilità che ci si possa lasciare contagiare da elementi non originariamente presenti nella nostra visione del mondo. Detto altrimenti, il modello a cui si tende non è tanto quello della tolleranza fra identità separate (che sarebbe comunque apprezzabile), ma piuttosto quello della “convivialità delle differenze”.
È del tutto evidente come non si possa qui banalizzare questa prospettiva all’insegna di una distinzione di carattere etico, fra buoni e cattivi, a seconda che la si accetti o la si respinga. D’altro canto non è neppure sufficiente evidenziarne alcune obiettive difficoltà, per concludere che tale proposta va rifiutata in blocco. Si tratta piuttosto di percorrere la strada che, tenendo conto dei problemi e mirando ad averne una conoscenza chiara, non rinunci tuttavia ad una grande apertura all’altro, in termini di disponibilità, di reciproca conoscenza, di rispetto delle specificità culturali altrui, di capacità di mettere in questione alcuni atteggiamenti consolidati.

Differenza: valore o minaccia?

Ciò non significa affatto rinunciare alle proprie convinzioni culturali, religiose o di mentalità; significa invece essere disponibili ad un dialogo, ad un confronto rispettoso, alla ricerca di stili di convivenza, il cui termine finale non può essere predeterminato in partenza. Ecco, se si vuole parlare di rischio, si usi pure questo termine, al quale del resto non è estranea una certa dose di attrattiva: bisogna essere disposti a rischiare sul fatto che non possiamo sapere fin d’ora quale sarà il risultato di questo “dialogo empatico”, anche se possiamo sapere con certezza che esso non richiede rinunce preventive. Si tocca qui il cuore del problema, a proposito del binomio identità e differenza. La differenza va recepita come valore, non come minaccia: perciò, come devo essere rispettoso di chi è portatore di questa differenza, così non ha senso che per un malinteso “vogliamoci bene” io nasconda la mia identità. Il rischio da evitare è che la difesa della mia identità si manifesti in una forma di chiusura, cui non è estranea talvolta un’istintiva “paura dell’altro” (frutto di una perdurante pedagogia del nemico), ma che talora è originata proprio da un’insicurezza riguardo ad alcuni stereotipi culturali, che su tale identità si appoggiano senza esserne l’espressione più genuina.

Rilievi critici

Ciò detto, alcuni rilievi critici alla prospettiva dell’interculturalità toccano problemi non pretestuosi e vanno perciò affrontati seriamente. Vorrei qui segnalare due questioni, relative al confronto fra la nostra cultura europea e quella islamica, cui appartengono la maggioranza degli immigrati giunti recentemente nel nostro paese: il peso di alcune prescrizioni religiose e il ruolo della donna. La cultura islamica è centrata su un’identità religiosa forte, che assume in particolari casi l’aspetto dell’intransigenza, anche legata all’applicazione in ambito civile della legge coranica. La nostra cultura, pur profondamente segnata dai valori del cristianesimo (oltre che da alcune forme storiche di intolleranza), ha elaborato il principio della libertà di scelta e di comportamento sul piano religioso, e al contempo della laicità dello Stato. La vicenda dello “chador” delle giovani studentesse francesi di fede islamica, il problema dell’educazione religiosa dei figli in un matrimonio misto, la difficoltà ad accettare chi si converte ad un’altra religione o il matrimonio di una donna islamica con un cristiano, sono altrettanti esempi di come un’adesione forte ai precetti religiosi, se permette sicuramente un reciproco rispetto, non rende sempre facile una possibilità di scambio.
Sulla condizione della donna, le situazioni nel mondo islamico sono certamente differenziate e così pure gli atteggiamenti dei musulmani presenti in Italia. Non c’è dubbio però che alcune pesanti discriminazioni nei confronti delle donne (fino al caso estremo della lapidazione per adulterio), seppure radicate nella tradizione, ci appaiono incompatibili con una difesa dei diritti dell’individuo e della libertà personale, che rappresenta una componente irrinunciabile del nostro patrimonio giuridico-culturale.
Questi due esempi vogliono evidenziare che, se una comprensione piena non può essere immediata su tutto, ciò accade proprio perché stiamo confrontando identità diverse. Ma, d’altro canto, una migliore comprensione delle ragioni dell’altro può avvenire solo in un contesto di reciproca accettazione e fiducia: il rapporto che gli immigrati nel nostro paese hanno instaurato con milioni di italiani, nei luoghi di lavoro e di svago, produce già da ora innumerevoli occasioni di scoperta di aspetti sconosciuti della cultura dell’altro e di arricchimento reciproco. Su questo versante, un ruolo di primo piano è destinata a svolgere la scuola, nel suo duplice compito di formare i giovani anche a queste nuove problematiche, e di accogliere i figli degli immigrati, facendosi promotrice di interculturalità e di educazione alla mondialità.