Per un umanesimo meticcio

di Bertin Mario

Per un umanesimo meticcio

Il nuovo ordinamento mondiale
L’anno scorso P. Huntington ha pubblicato un saggio (Lo scontro delle civiltà), dal quale è nato un ampio e acceso dibattito. In esso lo studioso americano sosteneva che, con la fine della guerra fredda seguita al crollo del blocco sovietico, lo scontro tra potenze economiche e militari si sta trasformando in uno scontro tra culture. Forse l’intuizione di Huntington prende le mosse da una semplificazione eccessiva della realtà, ma non vi è dubbio che essa offra un contributo nuovo e importante alla comprensione di come sta cambiando l’ordinamento mondiale. Noi ne terremo conto in particolare nella prima parte della nostra riflessione.
Durante il periodo della guerra fredda, il quadro politico mondiale si presentava sotto ogni aspetto (militare, economico, culturale…) bipolare. Un gruppo di società ricche e democratiche guidate dagli Stati Uniti d’America competeva con un gruppo di società più povere capeggiate dall’Unione Sovietica. Gran parte dei conflitti generati da questa competizione si consumava fuori dei due campi, nel cosiddetto Terzo Mondo, dove venivano fatti affluire armi, ideologie e capitali. Il Terzo Mondo doveva comunque soggiacere agli interessi dei due attori principali. Anche quando veniva liberato da un tipo di imperialismo era per essere colonizzato dall’altro.
Con il termine della guerra fredda, alla bipolarità si è sostituita la multipolarità. La multipolarità non deve essere intesa nella sua accezione matematica (da due a molti riferimenti), ma soprattutto come dato culturale nuovo. Non esiste più un “noi” e un “loro”, il bianco e il rosso, i buoni e i cattivi. In nessun angolo del mondo arrivano più i “nostri”. C’è invece una molteplicità di soggetti che non soltanto interagiscono tra loro, ma che si propongono anche come un nuovo interlocutore plurale. Ciò segna il passaggio dalla semplicità della dicotomia alla complessità del dialogo.

1.
Nel blocco di società che facevano riferimento all’ideologia socialista, venuti meno i vincoli ideologici ed autoritari, assistiamo ad una faticosa ricerca di identità. Tolto il coperchio oppressivo dell’imperialismo sovietico, molti popoli cominciano a porsi la domanda basilare, propria di ogni essere umano: chi siamo?
Intere popolazioni stanno utilizzando la politica per definire la propria identità e, all’interno di questa, per identificare e difendere i propri interessi.
Ciò significa che alla disgregazione di un universo tenuto insieme dall’ideologia e dal controllo politico, subentra un processo di riaggregazione su basi culturali. Ricercare la propria identità, infatti, vuol dire cercare la propria definizione in termini di lingua, di storia, di costumi, di istituzioni, di valori condivisi…, in una parola in termini di cultura.
Fattori predominanti di questa ricerca sono i fattori etnici e i fattori religiosi, che sono alla radice di qualsiasi cultura (assistiamo ovunque a una riscoperta di Dio, che è legata anche alla crisi della modernità).
Il processo descritto è sotto gli occhi di tutti. Basti pensare a quanto succede nella ex Jugoslavia, nelle ex repubbliche sovietiche, in Africa, in alcuni paesi del mondo arabo (Algeria, Egitto…).
Perché le forme di nuova aggregazione che si connotano per la ricerca della propria identità (aggregazioni culturali) sono caratterizzate dal conflitto? Esiste conflitto perché ogni cultura unisce sì tra loro i soggetti che si riconoscono nel complesso di valori che essa rappresenta, ma anche divide questi stessi soggetti da tutti gli altri. Ogni cultura postula un “nemico”.
Inoltre, siccome ciò che più insidia la cultura di una comunità è la comunità vicina tenuta insieme da una cultura diversa (i serbi si sentono minacciati dai musulmani, non dagli indios brasiliani), il nemico oggi è il vicino: è l’hutu per i tutsi, il macedone per gli albanesi, il kurdo per i turchi ecc.
Possiamo quindi dire che nell’area ex socialista i conflitti esistenti sono prevalentemente conflitti di natura culturale e, come li chiama Huntington, “conflitti di faglia”.

2.
Nell’universo capitalista (il cosiddetto “mondo occidentale”, del quale però fanno parte anche alcuni paesi orientali, come il Giappone) assistiamo ad una fenomeno diverso, anche se non del tutto opposto.
In questi paesi, da una parte è in atto un diffuso processo di unificazione legato al fenomeno della globalizzazione economica. È questo un fenomeno che, avvalendosi della deregolamentazione economica e finanziaria, dello sviluppo della tecnologia, dei trasporti e delle comunicazioni, dà luogo ad attività (produttive, economiche, finanziarie…) integrate a livello mondiale, che prevedono una strategia a livello planetario e che, di conseguenza, producono realtà economiche, sociali e culturali nuove. La globalizzazione è, dunque, una cosa completamente differente dall’attività internazionale. Infatti, mentre questa sottolinea il rapporto tra nazioni diverse (inter-nazione), la globalizzazione dà luogo ad azioni pensate e realizzate a livello planetario. In questo nuovo contesto gli Stati-nazione vengono completamente scavalcati e non hanno alcun potere di regolamentazione e di controllo. La globalizzazione assume manifestazioni diverse. Ad esempio, è connotata dalla libertà di agire sui mercati finanziari producendo anche nuove situazioni politiche (si veda quanto è avvenuto in Indonesia); favorisce fenomeni di omologazione nella produzione e nel consumo; disarticola la produzione di uno stesso prodotto in differenti paesi del globo (es. Ford); unifica i modelli di vita, ecc.

Questo processo:
a. tende ad unire paesi diversi per difendere interessi comuni (Unione Europea);
b. tende ad assorbire al suo interno i sistemi economici dei paesi più deboli, disconoscendone le specificità ed esponendone i ceti più marginali di essi (Brasile, Argentina, Messico);
c. per il suo alto livello di astrazione, si pone contro la cultura, la politica, l’ambiente. Assume come uniche regole quelle del mercato ;
d. dà vita ad una “superclasse” di ricchi ed impoverisce il ceto medio.

In una parola, questo processo tende a far coincidere la civilizzazione con lo sviluppo economico e a espellere l’uomo dal centro della realtà .
Ogni fenomeno di universalizzazione fa riemergere l’individuo con le sue specificità, le sue domande, la sua nuova solitudine. Inoltre, le società più esposte alle logiche della globalizzazione sono anche quelle che più si frammentano al loro interno, che chiedono alla politica il rispetto delle diversità. Anche nei paesi europei in cui esistono comunità di immigrati della seconda generazione, alla domanda di integrazione subentra la rivendicazione del riconoscimento delle identità.

3.
Il terzo fenomeno caratteristico del nuovo ordine mondiale post-guerra fredda – peraltro strettamente legato a quanto abbiamo appena finito di dire – è che l’Occidente, pur essendo l’unica civiltà ad avere interessi sostanziali in tutte le altre civiltà del mondo, ed essendo la civiltà vincente, è una civiltà in via di declino.
Le aree controllate dalla civiltà occidentale stanno infatti diminuendo sia in termini di territorio, che di popolazione, che di attività economica. A puro titolo di esempio, basti pensare che, mentre nel 1900 il territorio sotto il controllo politico della civiltà occidentale era pari al 38,7%, oggi riesce a malapena a raggiungere il 24%. Il processo inverso si verifica per l’Islam che nello stesso periodo è passato dal 6,8 al 22 per cento. Più sconvolgenti ancora sono i dati relativi alla popolazione. Nel 1900 la popolazione sotto il controllo politico della civiltà occidentale rappresentava il 44,3% della popolazione mondiale; oggi rappresenta il 13% e scenderà al 10% entro il 2025. Se prendiamo ancora come termine di confronto l’Islam, vediamo che esso controllava il 4,2% della popolazione mondiale nel 1900, il 15,9% nel 1995 e si prevede raggiunga il 19,2% nel 2025. Andamenti analoghi sono riscontrabili per le culture africana (dallo 0,4 al 14,4%) e indù (dallo 0,3 al 16,9%).

4.
In conclusione, mi pare si possa dire che a segnare le traiettorie lungo le quali si va formando il nuovo ordinamento del mondo sia sostanzialmente un problema di civiltà. Per civiltà intendo ciò che all’estero viene chiamato civilizzazione, e cioè la cultura di una società e il processo attraverso il quale ad essa si perviene. La cultura è quel complesso di valori e di principi che, essendo condivisi da gruppi estesi di persone, sono capaci di determinare comportamenti collettivi.

La cultura del dialogo
5.
Il problema culturale si colora di tutta intera l’ambiguità che presenta l’evoluzione recente del mondo.
Da una parte, possiamo constatare che la negazione della cultura implicita nel fenomeno della globalizzazione (che attraversa le culture e quindi ne prescinde) contiene in sé una inconfessata e incomprimibile aspirazione alla cultura come complesso di regole per la convivenza; come fondazione stessa della comunità;
come esito di un’attività che non comprende soltanto merci e capitali, ma anche uomini.
La società attuale, pur affermando come ideale ultimo il successo individuale e pur affermando di credere soltanto nei valori materiali, se vuole sopravvivere in modo ordinato, deve appoggiarsi ancora ai valori tradizionali che apparentemente nega o di cui non tiene conto, come l’onestà, la fedeltà, la solidarietà… Nessuno infatti avvalla il disimpegno e la corruzione. La società insomma vive dei valori del passato.

6.
Talvolta si dice che alla mondializzazione degli scambi e dei rapporti deve corrispondere una cultura universale e si comincia a parlare di cultura globale.
Si tratterebbe di una tendenza analoga, anche se capovolta, a quella verificatasi con il cosmopolitismo settecentesco che dalla universalità della ragione e dello spirito postulava l’universalità della vita economica e politica. Cosmopolita era l’uomo senza patria che poteva vivere in tutte le patrie.
In realtà una cultura universale appare oggi improponibile:
a. perché sradicherebbe l’individuo dalla sua propria storia e dal suo proprio passato, perdendo così la sua stessa legittimazione;
b. perché cancellerebbe la funzione della memoria come archivio che influisce sulla costruzione del presente. I materiali usati nei processi di globalizzazione infatti verrebbero avulsi dal luogo e dal tempo che li ha prodotti. Così devitalizzati, essi sarebbero destinati a essere buoni in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Il non luogo e il non tempo diventerebbero un luogo e un tempo, il nuovo luogo il nuovo tempo.
c. la mondializzazione culturale sarebbe una forma di dittatura universale, di imperialismo politico-culturale

Proporre la possibilità di una cultura universale significa riproporre il mito di Babele. Racconta la Bibbia: “Tutti gli uomini avevano una sola lingua e le stesse parole […] Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra!” […] Ma il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola” […] Il Signore li disperse di là su tutta la terra”. (Gen. II, 1 – 8)
Contrariamente a quanto si dice abitualmente, il castigo di cui parla la Bibbia non è la separazione delle culture, il pluralismo delle lingue. Il castigo consiste nel fatto che gli uomini non si capiscono più. La maledizione divina è l’incomunicabilità, non la molteplicità delle lingue.
E lo stesso Dio, quando nella Pentecoste manda il suo spirito, salva l’uomo non costituendo una unità di uguali, ma rendendo possibile l’unità dei diversi attraverso il dialogo, il confronto: “Ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?” (Att 2, 4 – 8).
La Chiesa che nasce il giorno della Pentecoste è un corpo in cui ciascun membro ha una sua funzione, in cui ciascuno ha un suo carisma. E l’intero corpo vive nella coesistenza e nella libertà di espressione di ciascun carisma.

7.
Una nuova cultura capace di ridare senso e regole a un mondo multipolare, dominato dai processi di globalizzazione, non può che essere una cultura plurale, basata sul dialogo, nella parità dei differenti. La cultura plurale è la cultura capace di cogliere e di fondere al suo interno anche le altre culture. È una cultura unica che affonda le sue radici e si alimenta in altre culture. È un “io” che nasce dal confronto con tutti gli altri “io”. La cultura plurale non è costituita da una accozzaglia di culture. È un unico tronco che si regge su molte radici e dal quale prendono vita molti rami. Solo così la cultura sarà capace di costruire una nuova dimensione comunicativa che aiuti a superare i conflitti tra civiltà e all’interno delle civiltà, che caratterizzano, come abbiamo visto , il nostro tempo.
Perché le culture possano accettare di dialogare tra loro, esse devono essere messe alla pari attraverso un’azione di decolonizzazione, che già, sotto alcuni aspetti, è avviata.
Decolonizzazione delle colture significa sì che le colture si devono liberare dei gioghi che ne hanno mortificato ed impedito l’espressione, ma vuol dire anche decolonizzare i colonizzatori, far loro cambiare la prospettiva dalla quale hanno guardato alle culture diverse da quella loro (europea-occidentale).
È l’intera logica coloniale che deve essere soppiantata. Dobbiamo imparare a vivere assieme e alla pari con gli ex-colonizzati. Dobbiamo cercare che le loro colture vengano “tradotte” (da “tradere”: portate nel nostro mondo).
Questo però significa schierarci dalla parte degli ex-colonizzati perché colonizzazione significava subalterneità, esclusione, imperialismo. Vera decolonizzazione vuol dire innanzitutto restituire alla vita ciò che era stato soffocato. Vuol dire cioè schierarsi dalla parte dei più deboli, di coloro che dal processo di colonizzazione hanno subito deprivazioni.
Vera decolonizzazione culturale è promuovere il colloquio delle differenze all’interno di un quadro planetario.
Il colonialismo culturale è una relazione. Ed è dunque questa relazione che va cambiata per costruire “un sapere critico utopico” (Gnisci) che indichi nel sud del mondo una speranza che gli restituisca la parità necessaria al dialogo.
Il risultato sarà un nuovo umanesimo plurale fondato cioè non sull’individuo ma sul dialogo tra culture; un umanesimo meticcio, nel quale ci sia parità e scambio, nel quale tutti siamo culturalmente meticci, portatori, nella nostra visione del mondo, oltre che del nostro colore, anche dei colori dell’altro.
Da qui nascerà la novità del mondo.

8.
Questo implica che il nord del mondo sposi il sud del mondo, ad ogni livello, a cominciare da casa nostra, (ogni realtà ha un suo nord e un suo sud), perché non cadiamo nel pericolo di cui parla Jean-Jacques Rousseau nell’Èmile: “Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercare lontano nei loro libri i doveri che non si degnano di adempiere a casa loro. Amano i tartari per essere dispensati dall’amare i propri vicini”.

Mario Bertin
scrittore, direttore di
Edizioni Lavoro – Roma