Sull’argine

di De Vidi Arnaldo

Noi «pensanti» (vocabolo introdotto dal Card. Martini) dobbiamo lasciarci interpellare da film come Centochiodi di Ermanno Olmi. Per chi non avesse assistito al film: un giovane, ma già affermato professore dell’Università di Bologna (interpretato da Raz Degan), inchioda – letteralmente – cento libri di una prestigiosa biblioteca ecclesiastica e si ritira sulla riva del Po, dove trova uno scampolo del mondo di ieri: là egli vive con la gente, aiutandola, fino a essere preso e… scomparire. Il film è evidentemente una parabola su Cristo (c’è anche la Maddalena).

Il sogno di ogni grande regista è realizzare la vita di Cristo; ed Ermanno Olmi ha dichiarato che questa è la sua ultima pellicola, il suo testamento.

Il film è struggente nonostante (o forse a causa di) sentimenti veri, meditazione purificata, leggerezza onirica, bellezza ecologica… La tesi del film? È nella scena del vecchio sacerdote bibliotecario in visita al protagonista preso, degna della pagina dell’Inquisitore de I fratelli Karamazov, di Dostoevskij. Il bibliotecario dice che i libri sono amici fedeli e custodi della verità che salva il mondo. Il giovane professore ribatte che un caffè bevuto con un amico contiene più verità di tutti i libri sacri.

In parallelo al film

Ma il film mi ha ricordato l’incipit di un romanzo cinese, il cui titolo è Ai margini dell’acqua (temo non sia stato tradotto in italiano).

Io mi alzo al mattino, mi lavo il capo con l’acqua e ci passo l’asciugamano. Assaggio dei pasticcini e domando: «È già mezzogiorno?». Oh, mezzogiorno è passato da un pezzo!

E se le ore antimeridiane sono volate in fretta, con uguale rapidità trascorrono anche le ore del pomeriggio. E in che differisce un giorno da cento giorni… e da cento anni? Ahi!, questa riflessione dà grande tristezza al cuore.

Unica consolazione in questa vita fugace è l’amicizia. Io ho una casa in riva all’acqua. È sempre aperta agli amici. In tutto siamo una dozzina, poco più. Ci riuniamo. Parliamo di cose banali, mai di politica. Prepariamo da noi stessi il cibo. Difficilmente ci ritroviamo tutti, specialmente se ilàgiorno è freddo, ventoso o piovoso. Ma non succede mai che non ci sia nessuno.

La tesi, chissà?, sarebbe la rassegnazione e non immotivata: quale sarebbe infatti l’alternativa? Che fare ora che perfino l’habitat è monetizzato? Che, se non sei più utile, sei persona molesta e nostalgica? Che il tuo paese è una repubblica fondata non sul lavoro ma sulla ricerca di divertimento? Che il cellulare ha bandito il silenzio? Che non siamo più persone, ma funzioni? Che la politica è folklore e il potere sta con l’economia? Che l’identità perduta (quella mediterranea nel nostro caso) non sarà sostituita da nessun’altra (a meno che si chiami identità quella del McDonald’s. Che le tre religioni del libro vedono i loro libri inchiodati? E per il futuro: ci saranno famiglie e figli? Ci sarà il lavoro? Ci sarà una patria?

Olmi dice: c’è una verità ed è il calore della tua mano nella mia. Molto bello, ma è ancora poco. Altrimenti me ne starei sulla alzaia del mio Sile. Invece tornerò in Brasile sperando di mettere insieme il calore delle mani amiche e qualche proposta di società nuova. Dovrà essere una proposta molto coraggiosa e dolorosa. Anche perché la società è ormai liquida, aperta, non nel senso che ti offre provvidenzialmente opportunità di incontri, ma nel senso che per nessuno non c’è nessun posto dove poter fuggire. Né più si potrà «tornare a casa». Bisognerà chiedere perdono per le sofferenze da noi provocate. Vedere l’eterno nell’istante, in un batter di ciglio. Imparare a camminare senza una zolla sotto i piedi e una tegola sopra il capo. Ringraziare tutti e comunque, specie coloro che ci portano a superare lo scontro tra immanenza e trascendenza, e quello delle due verità, per cominciare a parlare della verità che si trova in teorie fra loro contraddittorie, per il fatto che esse sono relative alle interpretazioni. E sognare il giorno in cui con una qualsiasi persona all’angolo della strada tu possa continuare il tuo dialogo interiore. E riconoscere la fecondità di quella massima di Ugo di San Vittore: «L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero».