Trasformare un principio in azione

di Stoppiglia Giuseppe

LE NOSTRE VERITÁ€ ASSOLUTE NON BASTANO

C’è una sola cosa nella vita più importante di Dio:

che nessuno debba sputar sangue perché un altro

possa vivere meglio (Atahualpa Yupanqui)

Una verità espressa nel punto più remoto del mondo,

senza un testimone, non muore, e, a suo tempo

porterà frutto (Thelhard de Chardin)

La sensazione di freddo incollato alla pelle ci perseguita.

Non so quanto questo clima atmosferico influenzi la consapevolezza di vivere in un tempo deludente e insieme difficile da interpretare.

La nostra mi sembra la storia di un dopoguerra e non l’inaugurazione di un’epoca nuova. C’è una cinica e terribile frenesia intorno a nuovi e inquietanti equilibri di potere sia in Italia, sia nel mondo.

Siamo spesso come storditi dalla valanga di informazioni e di notizie che si susseguono a getto continuo e si annullano una con l’altra.

Siamo come soffocati spesso da stereotipi e pregiudizi, dalle nostre abitudini, dai nostri schemi mentali irrigiditi. Abbondano i pataccari e non mancano i falsi profeti. C’è un affollarsi di verità gridate come assolute, mentre non sono che piccole verità, farcite di ambiguità e di sottintesi strumentalizzanti.

Abbiamo creduto per un certo tempo, forse tutti gli anni ’80, di poterci sottrarre agli effetti destabilizzanti dell’equilibrio del terrore nucleare tramite l’utilizzo intelligente dei beni di consumo e la razionalizzazione delle risorse personali. Gli anni ’90 hanno fatto crollare anche questo muro. Ora tutto è molto più allo scoperto e non consente di indugiare in territori apparentemente neutrali. Non è più possibile destreggiarsi in un mondo che vuole contarsi. Dove cioè appare sempre più decisivo sapere se si vuol essere del Nord o del Sud (ammesso che lo si possa scegliere) per erigere nuovi e più efficaci sistemi di separazione e di difesa.

Non è possibile in questo nostro tempo contrastare i venti cupi e tesi del predominio con speranze accuratamente limate nelle attese e attestate su obiettivi di basso profilo. Il quotidiano non è più il luogo del rasserenamento. La tuta multicolore che indossiamo per rilassarci ci apparenta ad atleti famosi dal fisico eternamente giovane; il telefonino cellulare impone ritmi artificiosamente gonfiati alla produttività dei nostri rapporti personali.

Forse non credevamo che in così poco tempo potessero avverarsi tali e tante occupazioni del potere nei confronti degli spazi dove si pensava di poter essere diversi.

Ci rendiamo conto che oggi più di ieri, non è possibile delegare la propria presenza, il proprio schieramento, la propria fede.

Occorre prendere veramente sul serio ogni goccia della nostra vita, perché può essere piccolo e fragile ma importantissimo anello che ci collega ai grandi nodi del vivere umano in questo nostro tempo.

Non possiamo tirarci indietro di fronte a questo impegno che non ci chiede altra conversione che quella di guardare con occhi nuovi al nostro stesso vissuto. E non perché sono nuove le cose che possiamo fare, ma perché nel nostro angusto quotidiano possono splendere perle preziose, sapienti e ricche di una misura umana che non in sé bella perché piccola ma, al contrario, è bella perché è capace di esprimere la novità di un sentire comune.

Il territorio piccolo del nostro io può essere luogo di passaggio di moltitudini e gli elementi di condivisione così forti da farci scoprire con stupore quali aggregazioni stanno nascendo attraverso gli incontri e i cambiamenti.

È allora possibile allargare le braccia come in croce non per esprimere inappellabile resa di fronte al turbinio di avvenimenti, ma per cercare di stendere al massimo le dita raggiungendo altre dita, sfiorandole in una suprema tensione di incontro, come tra cielo e terra.

IL SENSO DI MACONDO

La vita, l’avventura o magari la condizione di valori e di affetti ci hanno fatto incontrare.

Siamo qui, in piedi, pronti a partire. Per dove? Se abbiamo fiducia uno nell’altro lo sapremo presto; se capiremo tutti che l’incomunicabilità nasce non dall’impossibilità di gridare, ma di dare anche ad un solo grido un significato compiuto, traducibile per l’altro.

Noi chiamiamo tutto questo Macondo. No! il trovarci qui risponde ad un patrimonio che ciascuno di noi tiene dentro. Macondo provoca l’occasione per superare la diffidenza, il timore che la persona che abbiamo accanto per la strada si riveli un alieno, un essere clonato e non abbia invece nelle vene sangue caldo, un cuore che batte nel petto, una sensibilità che risponde alle carezze.

Ci troviamo qui per superare la paura che sorge di fronte al rivelarsi di persone come De Lorenzo, Berlusconi, Andreotti e delle migliaia di sosia che il sistema ha disseminato negli uffici, nelle scuole, nei partiti, nei sindacati, nelle chiese, vere e proprie metastasi che irretiscono ogni aspetto della vita collettiva. Non parlo di loro in quanto conniventi degli imbrogli, ma della loro nullità e assurdità umana, che non sprigiona nessuna passione , nessun autentico calore umano: squallide maschere in via di imbalsamazione aurea da cui, ed è la maledizione del Re Mida, fugge ogni alito di vita.

Per questo, forse, Macondo contiene richiami alla pazzia.

Tentiamo di rompere l’isolamento che ci imprigiona e ci toglie ogni energia, ogni vitalità. Perché solo con un’irrazionale, istintiva ostinazione, chiudendo occhi ed orecchi di fronte alle lusinghe delle sirene di turno, potremo avere la forza di incrinare la crosta dorata di passività, che impedisce ai nostri sensi di vigilare.

Non partiamo da zero, partiamo da noi stessi, dalla fiducia in noi e soprattutto dalla fiducia nell’altro. Tentiamo di impegnare le forze in un ascolto sincero e nudo di sé, nella ricerca instancabile di rompere i muri dell’incomunicabilità ricostruendo con pazienza brandelli di linguaggio comune con le voci di oggi. Senza paura di ferirsi contro gli ostacoli di cui è disseminata ogni strada o di farsi male negli incontri/scontri provocati dal procedere a tentoni.

Tentiamo, sempre assieme, sempre ascoltandoci, di liberarci dalla voglia di fare solidarietà, di fare cooperazione e scambio, dove sono sempre gli altri a dover fare, perché da spettatori la si possa acclamare.

Come sentite cerchiamo pace in una inquietudine instancabile. Siamo proprio nella follia. Così poveri, senza mezzi, senza struttura, senza ideologia, con il bagaglio leggero di chi non conosce dimora stabile, nel denudare le proprie e altrui ferite perché il sangue abbia ancora a scorrere tra gli umani.

Forse è sogno, è utopia, è astrazione; forse sono parole, magari belle e fascinose.

Macondo è tutto questo ma è anche un gruppo di persone in cammino, che condividono la scelta di amare… e nella scelta traguardi da raggiungere, di avviare un processo storico di scambio.

E questo partendo dal momento e dal luogo educativo, imprescindibile per creare una coscienza al dialogo e fondamentale nella fase pre-politica all’intervento sociale e politico.

UN PIZZICO DI FOLLIA PER COMBATTERE LA PAURA

È una cara pazzia, perché è contagiosa e coinvolgente.

Ci permette di fissare una rotta anche quando mare e cielo sembrano diventare una cosa sola per ingoiare tutto.

Pazzia di uno sguardo che teneramente raccoglie anche le briciole per evitare che il nulla prevalga.

Macondo è poco più che un bisbiglio.

Ma possiamo essere una sfida, una provocazione, nel senso che annunciamo e vogliamo sperimentare un valore inusitato in questa società: la gratuità.

Questa parola vogliamo fissarla perché evoca altre parole dette e scritte, prima che sulle pagine bianche di un libro, sulla carne e col sangue di un uomo. Parole che non passeranno, al contrario della terra e del cielo. Ma per queste parole cerchiamo, possiamo e, direi di più, dobbiamo trovare labbra e cuori capaci di ripeterle come se fosse la prima volta.

Per noi infatti il valore fondamentale è che nessuna creatura può essere sottratta a questa legge, che unisce in un unico avvenimento gli uomini di tutti i tempi in tutti i luoghi.

Una sottile vena di follia serpeggia proprio nei tre obiettivi prioritari che Macondo si è dati e vuol rendere vita in questo abbraccio simbolico:

1) non rassegnarci mai a considerare chiusa ogni possibilità di profezia;

2) la coscienza, nel cuore dell’uomo, può essere la scintilla di una luce infinita;

3) la fiducia, la certezza che c’è un luogo educativo dove poter mobilitare noi e altri uomini e altre donne verso mete audaci.

Nonostante l’utopia rischi di sposare la follia crediamo che c’è qualcosa da fare e qualcosa da dire. In questo spazio infinitesimale, in questo interstizio, che divide la rassegnazione e la resa dalla forza di resistere nonostante tutto, è proprio in questo spazio che si rattrappisce fino alle dimensione del punto che si gioca la categoria per noi fondamentale della liberazione. Liberazione che si fa speranza, ma anche pensiero e azione.

Analogamente succede quello che succedeva agli Ebrei. Agli Ebrei era vietato investigare sul futuro. La Torah (legge) e la preghiera li istruivano nella memoria… non per questo però il futuro diventò per loro un tempo omogeneo e vuoto. Poiché ogni secondo, in futuro era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia.

Ecco la nostra scelta, il suo significato ultimo è questa attesa, questa preparazione all’Incontro, all’Evento.

È una scelta laica, ma soprattutto adulta.

Saremo incompresi, fraintesi, contestati, ridicolizzati, ma per noi Macondo non è solo un luogo per fare esperienza, ma anche il tentativo di trasformare un principio in azione.

L’irruzione dei poveri sulla ribalta della storia è il nostro Kairo’s: cioè il tempo opportuno, la circostanza favorevole, urgente, ma è anche tempo di grazia e di giudizio.

Vivere significa incontrarsi e quando ci si fa carico degli altri si usa il noi. A quel punto la comunicazione diventa comunione.

CONCLUSIONE

È giusto, oltre che bello, spendere la propria vita, i propri soldi per chi non potrà restituirti niente.

In altri contesti umani e sociali, dove il potere e i soldi non hanno il primato, ci si rallegra anche del poco. A volte del niente.

Una carezza, la presenza di un amico, una caramella, un telefono per mettersi in comunicazione, un pane per riempire lo stomaco, la luce di notte, un giornale tra le mani…

Ritornare a celebrare il tempo, ringraziare e benedire la vita, accarezzare le rughe della nonna, abbracciare l’altro invece che insultarlo, sorridere al nuovo giorno, coltivare fiori, raccogliere col palmo della mano le lacrime di una gioia incontenibile… e tutto questo lo facciamo perché finalmente abbiamo imparato ad amare!

Impariamo dal campesino, dal contadino: si inginocchia davanti al sole, toglie il cappello davanti all’acqua, accarezza suo figlio nel Cristo Crocifisso, balla sul corpo della terra – la Madre Terra! sì, madre perché mai si dimentica di dare il pane quotidiano a tutti i suoi figli…

Grazie, amici, per la gioia che mi avete dato.

(Saluto ai delegati all’assemblea nazionale di Macondo, Bologna, 27 novembre 1993)