Abbaiare agli sconosciuti

di Lugli Daniele

Pensare alla paura mi ha fatto riprendere vecchie letture, che non infliggo: Cicerone «pavorem, metum mentem loco moventem»à ma più Spinoza e Bacone e uno spruzzo di Darwin. Il primo mi ha riportato alla mia razionalità, limitata e decrescente, soggiogata da una passione triste e d’attesa, per il declino di organi e funzioni, inevitabile e dunque da accettare. Il secondo ha sottolineato che già la razionalità è insidiata dal suo interno da idoli falsi, nozioni profonde ed erronee, della tribù, della spelonca, del mercato, del teatro, che radicano pregiudizi e stereotipi. Il terzo mi ha ricordato che si tratta della più primitiva e fondamentale delle emozioni. Di Giovanni Jervis ho letto pagine sulla paura, il sospetto fino alla paranoia, della quale non ci mancano quotidiani esempi.

Paura. Un sondaggio

Occasione è stato un sondaggio, forse di un paio d’anni fa, nella mia città, in un quartiere ad alta densità di migranti: la paura della criminalità è per tutti, italiani e stranieri, donne e uomini, la prima. Anche altre vengono messe in fila. Gli italiani impauriti dai fatti delittuosi attribuiscono agli stranieri paura, non dei furti, ma della discriminazione. Nelle considerazioni degli italiani la presenza degli stranieri è emersa quasi incidentalmente, ma chiaramente, seppure in una minoranza di risposte aggressive: sparargli, rimandarli a casa loro, non hanno paura di niente perché sono troppo tutelati, lo sguardo dei neri fa paura. Sono gli stranieri a dire chiaramente che gli italiani hanno paura di loro. Gli uomini tutti pensano che le donne siano più paurose di loro, le donne in genere pensano che la paura non abbia sesso. Dalla rabbia dello sfogo iniziale si è passati anche a parlare e ragionare. Bisognava farlo prima, bisognava continuare così. Preziosi e rari sono occasioni e spazi nonviolenti e ragionanti di confronto tra i residenti vecchi e nuovi in quartieri difficili.

Gli imprenditori della paura e gli stupidi

«Solo i cani hanno l’abitudine di abbaiare a chiunque non conoscono» dice Eraclito. Succedeàinvece sempre più spesso e ovunque. L’impegno nell’individuare le cose che possiamo cambiare e contribuire a cambiarle è buon terreno per conoscersi e uscirne un filo più consapevoli. La prima cosa è parlare e ascoltare, perché la speranza prenda il posto della paura, all’origine di guai maggiori di quelli, veri o temuti, che l’hanno prodotta. I malvagi non sono tanti, il guaio è che sono seguiti da stupidi e la stupidità è contagiosa. Gli imprenditori della paura sono buoni arruolatori di stupidi. Dietrich Bonhoeffer, impiccato alla vigilia della fine della seconda guerra mondiale, era giustamente più preoccupato degli stupidi che dei malvagi. Li vedeva impermeabili sia alla persuasione razionale che all’evidenza empirica: «Qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge sociopsicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane ” ad esempio quelle intellettuali ” ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente ma con slogan, motti ecc. da cui egli è dominato. È ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale».

Un esempio: il vendicatore di Macerata

Malvagità e stupidità si combinano talora nelle stesse persone. Avviene, come a Macerata. Un giovane spacciatore nigeriano, a quanto pare con altri connazionali, avrebbe ucciso e fatto a pezzi una diciottenne: una ragazza con problemi di dipendenza, che non si è riusciti a trattenere nella comunità dove era ospitata. Un po’ di soldi per procurarsi la sostanza li ha avuti da un quarantacinquenne, maceratese doc, col quale si è intrattenuta. Si sapeva solo di uno spacciatore indagato e un coetaneo italianissimo della zona e già arruolato dagli imprenditori di paura e odio, si è sentito vendicatore. Aveva pensato di sparare in tribunale, ma la rabbia contro il presunto assassino si è tramutata in odio verso tutti quanti i suoi «simili». La rabbia verso uno è divenuta odio verso un collettivo. Come dice Aristotele: «Se crediamo che qualcuno sia un certo tipo di persona, noi lo odiamo». Così ha preso auto e pistola e ha tentato una strage. Gli spacciatori a Macerata sono neri, dunque i neri di Macerata sono spacciatori. All’ospedale ne hanno ricoverati cinque. Uno appena medicato se ne è andato nonostante il ricovero fosse necessario. Senza permesso, temeva altre conseguenze oltre alla pallottola che gli hanno estratto dalla gamba. Qualcun altro è stato colpito, forse meno gravemente, e non è andato al pronto soccorso. I ricoverati sono del Ghana, del Gambia, del Mali, della Nigeria. C’è pure una ragazza. Il vendicatore si dispiace di averla colpita: nell’eccitazione gli è parsa più negra che donna. Ora con gli indiziati il vendicatore, applaudito dagli altri delinquenti carcerati e da molti a piede libero, è detenuto con l’accusa di strage aggravata dall’odio razzista.

Non uomini, non volti, ma bersagli da abbattere

«Ecché, se va a spara’ così? Poteva piglià qualcuno» ha commentato un commerciante. Fortunatamente non ha colpito nessuna persona,àma solo dei giovani neri, tra i 20 e i 30 anni, senza identità, anche se loro credono di chiamarsi Wilson, Omar, Gideon, Jennifer, Festus, Mahamadou. In questo sta l’aspetto più preoccupante, nel non vederli proprio come persone, ciascuna con il suo volto, la sua storia, la sua dignità. È un atteggiamento diffuso, per non dire generale. È lo stesso che ha reso possibile altri orrori in passato, ne produce ora e ne prepara di nuovi. So che questo comportamento non mi è estraneo. Vuoto gli spiccioli, non ne ho mai tanti, al primo questuante, così a chi segue rispondo allargando le braccia, spesso senza neppure guardarlo in faccia. Non sono interessato ai servizi di spacciatori e prostitute e così mi pare di non contribuire a una filiera criminale. Qualcosa, senza che mi impegni troppo, cerco perfino di fare per i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Ma i giovani che incrocio quasi non li vedo, non li guardo. Eppure so che non si fa così.

In questa indifferenza cresce la spirale di paura e odio. Da Capitini mi pareva di aver pure imparato che se gli altri come persone non ci sono per me, dubito di poter esserci io. E ricordo alcuni suoi versi:

La mia nascita è quando dico un tu.

Mentre aspetto, l’animo già tende.

Andando verso un tu, ho pensato gli universi.

Non intuisco dintorno similitudini pari a quando

penso alle persone.

La casa è un mezzo a ospitare…

Daniele Lugli, avvocato, già difensore civico alla Regione Emilia Romagna,
impegnato nel Movimento Nonviolento,
componente la redazione di madrugada