Tra salute e sanità: dalla malattia alla qualità della vita

di Bruni Alessandro

In dentro il guscio del numero 110 di madrugada, si è ragionato sugli aspetti sociologici della relazione tra sanità e salute con ampio spettro di considerazioni. Ne è emersa una stimolante discussione che merita un ulteriore approfondimento. Negli ultimi decenni si è assistito prima alla formulazione e poi all’affermazione di un nuovo orizzonte delle politiche socio-sanitarie. La salute non è più una prerogativa di gestione esclusiva del sistema biomedico o manageriale, in quanto la centralità è, e deve rimanere, sul cittadino e sulla sua aspirazione a migliorare la qualità della sua vita. Un’affermazione tanto banale da apparire superflua, mentre non lo è affatto.

Solo recentemente il settore della sanità ha avuto la forza di modificare l’eccesso di potere esercitato dapprima dal settore biomedico e poi da quello economico. Inutile ripercorrere le tappe e le legislazioni che hanno visto il contrapporsi di questi operatori. Meglio fermarsi a un’analisi di attualità di una condizione che ogni cittadino vive nel momento in cui diviene paziente, sempre in bilico tra essere soggetto o oggetto del sistema sanitario.

Ciò che salta agli occhi è il paradosso tra:

1) la considerazione del cittadino come involucro di malattia e come consumatore di beni sanitari (quindi considerato come un’entità collettiva, alla pari di un qualsiasi fruitore di beni pubblici che non ha volto);

2) come un soggetto individuale unico, che subisce il potere dei primi due, ma che ha imparato a difendersi divenendo non solo portatore di diritti, ma difensore di sé stesso come entità globale.

La sanità è diventata, di fatto, un sistema complesso con elementi di grande qualità, ma, al contempo, con grandi derive tipiche dell’esercizio del potere, piuttosto che del diritto alla salute.

Nell’ambito della sanità, recentemente ha fatto breccia un nuovo settore, che taglia e condiziona i settori biomedico, economico e politico prima dominanti con la forza di un vento volubile, destabilizzante portatore di interessi individuali o di gruppi che partendo apparentemente da diritti e doveri del malato vuole impossessarsi del futuro della sanità pubblica: il potere politico.

Per riuscire a comprendere le ragioni della forza del potere politico bisogna partire dall’analisi dei primi due. Con il passare degli anni è divenuta imprescindibile nella sanità la fertilizzazione di saperi non più solo clinici, ma anche sociologici, epistemologici, della organizzazione aziendale, della pedagogia, del diritto, tutti saperi che da accessori nella sanità del passato sono divenuti fondamentali in quella di oggi, relegando i saperi clinici ad aspetti sì fondamentali, ma solo nel rapporto duale con il paziente.

Questo nuovo concetto produttivo si applica con grosse derive disfunzionali nella sanità, dove il bene individuale con la risoluzione della malattia deve avere protocolli terapeutici di base comuni, ma si deve sviluppare su base dualogica nella relazione tra medico e paziente, in altre parole: ogni paziente ha la «sua» malattia e vuole il «suo» medico. La spersonalizzazione dell’atto sanitario, se da un lato porta a una migliore produzione quantitativa, porta ineluttabilmente a un appiattimento della qualità terapeutica, specie nelle grandi patologie, dove la collaborazione del paziente è fondamentale per l’esito terapeutico.

Il paradigma della quantità rischia di contribuire alla perdita di motivazione degli operatori con danni verso i pazienti e alle loro famiglie, all’aumento degli sprechi e alla grave incompatibilità economica che il sistema sanitario sembra avere, se rapportato all’insieme degli altri sistemi che compongono la società umana. L’ospedale è divenuto un macrocentro territoriale, basato sul numero degli utenti che assolve al pronto soccorso e alle principali cliniche d’urgenza, mentre le cure specialistiche di patologie croniche sono assicurate da reparti ospedalieri decentrati, distribuiti sul territorio in relazione a scelte di opportunità. Così l’oncologia si trova principalmente in un ospedale, la cardiologia in un altro, la geriatria in un altro ancora, ecc.

La massificazione delle patologie cronicizzanti non di urgenza ha portato a percezioni di qualità differenti non in relazione a dati clinici oggettivi, ma a dati soggettivi nella popolazione. Divengono così di rilievo popolare le terapie di urgenza e sono dequalificate come percezione di eccellenza le terapie di prevenzione e di cronicità che di fatto sono le più numerose. Si ricorda il famoso detto: «La prevenzione non si vede» e quindi difficilmente «genera eroi». È un aspetto di non secondaria importanza, perfettamente armonizzato con il «neomeccanicismo iperspecialistico» che ha sempre messo al centro il mondo biomedico, ma non è certamente solo questo il contesto corretto per agire nella sanità.

La sfida del sistema sanitario è quella di assumere logiche del Disease Management, che può essere definito uno strumento sistemico, mirato alla gestione integrata e coordinata delle patologie da parte di tutti gli attori del sistema e dei diversi regimi assistenziali (domiciliare, ambulatoriale, residenziale, ospedaliero), prendendo in carico i bisogni del paziente nelle diverse fasi di evoluzione della storia naturale della malattia. Gli strumenti usati devono essere sempre integrati (multiprofessionali basati sulla eteroreferenzialità) come spostamento del centro di attenzione verso i bisogni complessi del paziente.

Nel mondo produttivo globale oggi questi due paradigmi continuano a contrapporsi, ma la prevalenza riguarda la quantità al minor costo, rispetto alla qualità con il miglior servizio. Questo paradigma ha pervaso anche il sistema sanitario, governato da economisti e manager la cui qualità è dominata dalla minor spesa e dal prodotto collettivo. Per economisti e manager, il medico è solo l’operatore alla catena di montaggio dell’era fordista che deve visitare in un tempo prestabilito e che deve operare sempre nel tempo prestabilito secondo un protocollo che non sempre tiene conto della variabilità patologica e della variabilità individuale del paziente. In questa situazione parlare di qualità è spesso elemento puramente accessorio, ovvero un parametro che va canonizzato e raggiunto solo in un’enfasi produttiva e appare più una volonterosa esortazione che un’azione organizzativa a tutto tondo.

Gli strumenti più innovativi del «management sanitario» appaiono essere utilizzati in modi confusi, ispirati più all’esperienza, alle convinzioni personali dei singoli leader che alla letteratura scientifica attestante la loro efficacia. Miti, riti e routine tendono ad appiattire, in una logica quantitativa e meccanicistica, anche le migliori prassi verso una lettura e un’azione sistemica e i fallimenti in genere sono dietro l’angolo.

Concludendo, la creazione di una «cultura» e una azione di welfare di comunità potrebbe contrastare la crescita delle disuguaglianze, specie tra quelle fasce di popolazione (definite di desaparecidos sociali) quali: i vecchi e i nuovi poveri, gli immigrati, gli anziani deprivati che potrebbero non più accontentarsi di una rivisitata «tessera di povertà» (Istat 2018 sui poveri: cinque milioni in Italia). Un fenomeno preoccupante.

Fonti consultate:

Carè R. (2016), Finanziamento e sostenibilità del sistema sanitario italiano. Analisi e prospettive, Edizioni del Faro.
Cotichelli G. (2013), Disuguaglianze nella salute e professione infermieristica. Risorse e criticità per l’equità del sistema sanitario, Franco Angeli.
Davini O. (2013), Il prezzo della salute. Per un sistema sanitario sostenibile nel terzo millennio, Nutrimenti.
Mapelli V. (2012), Il sistema sanitario italiano, Il Mulino.
Rapporto Oasi 2017 (2017). Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano, EGEA.