Responsabilità

di Pinhas Yarona, Piccardo Hamza R., Broccardo Carlo

Nella Torà

La parola ebraica che sta per responsabilità è achraiùt, che contiene in sé sia ach, fratello, e sia achèr, altro. Per poter meglio comprendere tale relazione è opportuno rivolgersi ai primi capitoli della Bibbia che dimostrano come solo quando si è responsabili delle proprie azioni l’«altro» diventa «fratello». Ma se manca il senso di responsabilità reciproca è rottura completa.

Dopo aver completato la Creazione, Dio forma l’uomo e lo pone nel giardino dell’Eden «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2:15). Da qui comprendiamo che da questo momento in poi Dio affida nelle mani dell’uomo, dotato di libero arbitrio, tutto il creato, di cui rimarrà responsabile. Oltre a questo compito, Dio aggiunge un ordine: «Non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché nel giorno in cui tu ne mangiassi, moriresti». Malgrado questo avvertimento, Eva, incoraggiata dal serpente, decise di mangiarne e ne diede anche ad Adamo. Allora Dio chiamò Adamo e gli chiese se avesse mangiato il frutto proibito ed egli rispose: «La donna che hai posto insieme a me, fu essa a darmi dell’albero e io mangiai». Alla stessa domanda Eva risponde: «Il serpente mi sedusse e io mangiai». L’avvertimento non ascoltato diventa a sua volta punizione: il serpente striscerà sulla terra, la donna partorirà con dolore e l’uomo lavorerà duramente per sopravvivere.

Fino ai nostri giorni l’uomo nega la propria responsabilità e tende a ripetere in un circolo vizioso lo stesso errore dichiarando: «Non è colpa mia, ma colpa sua». Così si comportano i bambini, così litigano i fratelli o i coniugi. Se ne diventa consapevoli (non sempre…) solo quando si teme la punizione o la si sperimenta, e allora è nostro dovere porre rimedio. Da qui la punizione è il risultato di un’azione errata.

Una delle possibilità che abbiamo per ampliare la nostra capacità di comprensione è relazionarci con l’altro, il quale ci aggiunge un ulteriore punto di vista. Purtroppo, il più delle volte l’incontro diventa scontro.

La seconda generazione nella Bibbia accentua lo strappo, che diviene ormai irreversibile. Caino e Abele presentano dei sacrifici al Signore che gradisce quello di Abele. Caino ne rimane abbattuto e il Signore lo consola: «Se agirai bene potrai andare a testa alta ma se non agirai bene, il peccato sta in agguato alla porta; esso ha desiderio di te, ma tu puoi dominarlo» (Ibid. 4:6-7). Caino non ascolta e subito dopo uccide suo fratello, Abele. Di nuovo il «Signore Dio disse a Caino: Dov’è Abele tuo fratello? Egli rispose: Non lo so, sono forse il guardiano di mio fratello?». Da questa frase risulta evidente che Caino non riconosce o peggio si rifiuta di assumere le sue responsabilità per ciò che è accaduto.

Non solo il giardino dell’Eden deve essere «coltivato» e «custodito», ma anche le relazioni; l’«altro» non lo dobbiamo cercare lontano: l’«altro» è nostro fratello, l’«altro» è il prossimo più vicino – noi stessi!

L’insegnamento dominante è il totale rispetto per colui che esprime e vive la propria storia personale. Colui che si affida alle volontà altrui, non è altro che un idolatra. Per questo la Legge incoraggia lo sviluppo dell’individuo che si associa alla collettività essendo la sorte dell’individuo legata a quella della comunità. Come? Sviluppando il senso di responsabilità per il benessere del prossimo, sia esso la famiglia, lo straniero, la vedova, il povero, il malato e operando per la giustizia sociale e così via, a prescindere dallo stato sociale. Quando il dovere viene trascurato è compito dell’individuo assumersi le piene responsabilità: «Nel luogo dove non ci sono uomini, cerca di essere un uomo» (Pirqè Avot 2:6). Uomini sono coloro che pensano in grande, che si assumono le responsabilità negate dagli altri, che operano per un mondo migliore.

Yarona Pinhas

Nel Corano

Per il musulmano e la musulmana la responsabilità è parte integrante della loro fede: quando Allah Altissimo crea l’uomo insufflando in lui «del» Suo Spirito, lo presenta agli angeli come khalifa fil ard, vicario, luogotenente sulla terra. Qualcuno che singolarmente e come famiglia umana sia al contempo testimone dell’unicità di Allah e agente morale.

Il primo pilastro dell’islam, la shahada, ci rammenta continuamente il concetto di responsabilità. La predicazione del Profeta Muhammad non ci spinge infatti a meditare sulla natura di Dio ma piuttosto sulla Sua creazione e sul corollario di sensibilità e impegni che derivano da quella funzione di vicario.

Quando diciamo infatti «Ash-hadu an la iléha illalléh» (testimonio che non c’è divinità all’infuori di Allah) riconosciamo nel nostro cuore e nella nostra coscienza l’unicità divina e quando completiamo la testimonianza di fede dicendo «wa Ash-hadu anna Muhammadan rassululléh» ci impegniamo a dare corpo e seguito alla prima affermazione assumendoci la responsabilità della fede nella maniera che è stata insegnata dal Profeta Muhammad.

Questo stato di coscienza vivifica il patto con l’Altissimo nella speranza suprema di essere tra quelli di cui parla questo versetto del Corano: «Tra i credenti ci sono uomini che sono stati fedeli al patto che avevano stretto con Allah. Alcuni di loro hanno raggiunto il termine della vita, altri ancora attendono; ma il loro atteggiamento non cambia» (XXXIII, 23).

Nella Sua misericordia Egli non ci annichilisce con il peso del dovere che ci siamo assunti, ma ci consente la possibilità di sbagliare, di pentirci e di riformarci in continuazione.

Nel pentimento, in tutta evidenza, s’iscrive la cifra del perdono divino così come rispose Rabia a chi gli chiedeva in proposito… «se ti penti – disse – Allah ti ha già perdonato».

La certezza del perdono, di fronte alla sincerità del pentimento, non consente al credente di evitare la cosciente azione positiva per timore «di non far bene», o di non farlo abbastanza. Nessuna ignavia ci è concessa.

Nell’Islam tutto questo è intimamente legato al concetto di amana che, in qualche maniera, è ciò che ha diritto alla lealtà.

Il marito è amana per la moglie e viceversa, i figli lo sono per i genitori, i governati per i governanti, i deboli per i forti, i poveri per i ricchi, i malati per i sani.

Ogni creatura appartiene a Dio ed Egli la mette nella condizione di poter/dover esprimere il riconoscimento della Sua preminenza manifestando lealtà e senso di responsabilità in base allo status sociale, culturale e materiale che gli ha concesso.

La piena assunzione di questa responsabilità, senza deleghe impossibili né colpevoli ignoranze, darà corpo a quell’imperativo morale che qualcuno ha chiamato il sesto pilastro dell’Islam, l’ordine reiterato nel Corano e messo in opera dal Profeta nella sua Sunna benedetta: comandare il bene e condannare il male, con l’azione se possibile, con la parola altrimenti e, se questa neppure è concessa, con l’intima convinzione e sofferenza seppur inespressa.

Ma è lotta dura e per questo noi ci rivolgiamo a Lui con questa preghiera:

Allahumma,

nel continuo combattimento morale e spirituale

l’animo nostro si stanca e si ferisce.

Ogni ingiustizia subita lo deprime, ogni peccato commesso lo dissangua.

Mio Dio, Signore del Tempo e dello spazio,

Tu sei l’integrità smarrita e il riposo che bramo.

Non Ti negare, non mi sfuggire,

Tu sei as Samad.

Hamza R. Piccardo

Nel Nuovo Testamento

«Un giorno Gesù si trovava in una città e un uomo coperto di lebbra lo vide e gli si gettò ai piedi pregandolo: Signore, se vuoi, puoi sanarmi. Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: Lo voglio, sii risanato! E subito la lebbra scomparve da lui» (Lc 5,12-13). Questo succede quando Gesù è all’inizio della sua attività pubblica; facciamo ora un salto più avanti di qualche capitolo: Gesù stava andando a casa di Giairo per guarire sua figlia che era in fin di vita, «quando venne uno della casa del capo della sinagoga a dirgli: Tua figlia è morta, non disturbare più il maestro. Ma Gesù che aveva udito rispose: Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata» (Lc 8,49-50).

Nel primo caso, fa tutto Gesù; nel secondo invece no: chiede la collaborazione di Giairo, gli dice «Credi, e tua figlia sarà salvata». Il caso di Giairo è significativo, perché dice il modo di fare che Gesù va via via affinando: fa miracoli di ogni tipo, guarisce ogni malattia e infermità, risuscita addirittura i morti… ma tutto questo non lo fa da solo, chiede la collaborazione delle persone che incontra. Il Vangelo secondo Luca sottolinea molto il tema della salvezza: da sempre Dio sta progettando di donare la salvezza a tutti gli uomini, ora finalmente il suo progetto diventa realtà attraverso Gesù. È Lui il salvatore del mondo; ma non nel senso che fa tutto da solo: chiede alla gente che incontra di collaborare.

Rispondere al progetto di Dio

Partendo da qui, riusciamo a intuire il concetto di responsabilità presenteànel Nuovo Testamento; non è principalmente un concetto soggettivo (sono tenuto a rispondere delle mie azioni), quanto piuttosto una questione storico-teologica: ogni uomo è «responsabile» in quanto chiamato a «rispondere» a un progetto di Dio, a collaborare con Lui perché il suo piano di salvezza possa realizzarsi, perché tutti possano vivere nella Sua pace.

Il nostro modo di pensare, di parlare, di agire: non è indifferente; non tutte le scelte sono uguali: da quello che noi facciamo dipende il regno di Dio sulla terra, cioè che Dio sia presente e vivo in mezzo a noi.

È Gesù la luce che illumina il mondo; ma chi crede in Lui è responsabile di quella luce, deve tenerla ben visibile perché rischiari tutto attorno.

Un esempio concreto. Leggiamo il racconto della morte di Stefano, al capitolo 7 degli Atti degli Apostoli, e ci accorgeremo che sembra quasi ripetersi la scena della morte di Gesù; Stefano, prima di morire, dice parole molto simili a quelle pronunciate da Gesù in croce.

Ma anche se guardiamo a come viene descritto Pietro, ci accorgiamo che spesso nel libro degli Atti compie gli stessi miracoli che aveva fatto Gesù e come Lui è visto male dalle autorità. Più di tutti è l’apostolo Paolo che assomiglia a Gesù: come Lui predica, compie miracoli, viene osteggiato dai capi del popolo; e, in particolare, come Gesù fa un viaggio verso Gerusalemme dove viene incarcerato. Perché tutte queste somiglianze?

Dopo la sua morte e risurrezione, Gesù non è più presente fisicamente; ma non vuol dire che sia sparito per sempre! I suoi discepoli, coloro che credono in Lui, hanno una responsabilità grande: rendere ancora presente il Signore Gesù, cercando di continuare a pensare-sentire-agire come Lui.

Da noi dipende la possibilità che altri conoscano e incontrino il Signore Gesù: in questo senso abbiamo una responsabilità non da poco. Un anonimo fiammingo del XV secolo ha scritto una preghiera, divenuta famosa; comincia così: «Cristo non ha più mani, ha soltanto le nostre mani per fare oggi le sue opere».

Carlo Broccardo