MELQUÍADES

Articolo di Paolo D'Aprile

Música brasileira: capitolo 11

E il sogno degli anni dorati fatto di sussurri e canzoni a mezza luce terminò soffocato dai ruggiti dei carri armati. I segni del colpo di stato erano nell’aria da tempo. L’apertura alle masse popolari, le leghe contadine, la riforma agraria, non vennero perdonate. La nuova borghesia urbana, oriunda dei potentati economici patrimonalisti dell’economia agricola di cinquant’anni prima, mostrò i denti. Frange reazionarie della chiesa alleate a settori militari, sotto l’egida degli Usa, sobillarono il complotto. Le prove generali avvennero con la marcia civica “Per Dio, la Famiglia e la Proprietà”. Milioni di persone in piazza in tutto il Paese, a favore della “tradizione” tradita dal governo progressista che, guidato da Mosca, avrebbe impiantato il regime marxista-ateo per corrompere la morale cristiana. Il Paese della gente per bene, baluardo della civiltà cattolica non poteva permetterlo. Il primo di aprile del 1964, il nuovo Brasile sognato da Juselino Kubitchek e dai suoi successori moriva definitivamente. La resistenza fu praticamente nulla. Molti furono massacrati, imprigionati, torturati. Molti scelsero l’esilio, il silenzio, l’oblio.

Non fu così per l’arte, la musica, il cinema, gli artisti. In un clima in cui si colpivano prevalentemente i politici di opposizione, le forme di espressione godevano di una paradossale libertà che contribuiva, per assurdo che sembri, con lo stesso regime repressivo, come a dire: cosa vi state a lamentare? avete la libertà di cantare, di scrivere, di filmare e di dire quello che volete, quindi vuol dire siamo in democrazia, con ordine e progresso. Del resto la giunta militare aveva preso il potere per “garantire la democrazia” e ripristinare le istituzioni repubblicane minacciate dal comunismo internazionale, con la promessa di restituire il potere ai civili in brevissimo tempo, cosa che avvenne solamente nel… 1989.

Ma i fermenti degli anni sessanta che scossero il mondo, non si fecero certo aspettare. In un primo momento il semplice e ingenuo comportamento ribelle giovanile, vene addirittura fomentato dalle autorità come un segnale di modernità. Si organizzavano festival e programmi televisivi in cui si presentava il rock interpretato da idoli nostrani, alcuni dei quali imperversano fino ai nostri giorni e di cui ricordo il nome di Roberto Carlos, oggi trasformato in cantante confidenziale per nostalgiche matrone. Il movimento chiamato Jovem Guarda, (Joven, giovane) voleva contrapporsi alla “vecchia guardia” della canzone popolare, attraverso testi adolescenziali su macchine macchine, ragazzine, cuori infranti, capelli lunghi. Come i Beatles di quell’epoca, del resto: she loves you yeah yeah yeah, drive my car

Qui un classico di quegli anni in una recente interpretazione: una delusione amorosa, la macchina veloce…

Sergio Endrigo e Roberto Carlos vincono il 18° Festival di Sanremo | public domain

Roberto Carlos è diventato parte dell’establishment nazional popolare in tal modo che ogni anno, la notte di Natale viene presentato un suo concerto, con orchestra sinfonica, invitati celebri ecc ecc. Fu lui, in occasione della visita papale a cantare davanti ad un platea di due milioni di persone (e il povero papa) le sue canzoni pseudo religiose, solenni porcherie musicali a mezza strada tra la bestemmia e il sacrilegio. In quegli anni si presentò anche a Sanremo e vinse in coppia con Sergio Endrigo il prestigioso concorso. A lui dobbiamo il grande successo “L’appuntamento”, e, visto che l’ho citato, la piazzo qui nelle due version: cantata da Ornella Vanoni, cantata da Roberto Carlos.

Sì, va bene, le melodie sono orecchiabili, fischiettabili e sufficientemente mediocri da poterle cantare sotto la doccia. Il fatto è che questo personaggio è diventato una unanimità nazionale, considerato da tutti come maestro e idolo, compreso dai grandi musicisti, quelli veri. Incredibile. Una delle tanti contraddizione del cuore umano.

Però questa canzone, pur cantata in spagnolo per imitare Julio Iglesias, e destinata al mercato latinoamericano, è bella, ce l’ha propinata pure Iva Zanicchi col titolo di “Testarda io”, che però se qualcuno la vuole sentire se la cerca da solo,  che c’è un limite a tutto.

Anche questa canzone è piacevole, perché bella davvero è la cantante.

Ma in quegli anni nascevano le menti artisticamente più fertili che la musica brasileira ha prodotto nella seconda metà del secolo XX. Gente capace di leggere i tempi, individuare e aprire percorsi inesplorati e inventare nuovi linguaggi a partire dall’enorme tradizione popolare. Approfittando del clima di libertà espressiva che la dittatura militare permetteva nei primi anni di governo, queste menti fertili di cui sopra, usavano gli stessi festival, gli stessi programmi televisivi, gli stessi mezzi di comunicazione della Jovem Guarda, per divulgare un musica che musica però non era più. Ispirandosi nel movimento antropofagico degli anni venti (vedi cap. 2) i nuovi artisti esponevano i paradossi del Brasile contemporaneo: moderno e arcaico, rurale e urbano, avanzato nelle sue esigenze e nella sua produzione culturale e retrogrado nei suoi valori morali e nel suo regime di governo. Tutto ciò era espresso attraverso una forma che diventava sostanza, attraverso una estetica visuale che diventava etica di comportamento, una specie di barocco psichedelico che univa la chitarra elettrica al samba, il rock alla tradizione popolare. Ma in questo caso, quando dico rock, intendo Jimi Hendrix, Bob Dylan, John Lennon, il nuovo linguaggio giovanile della controcultura. 


Maria Bethânia e Caetano Veloso 26° Prêmio da Música Brasileira, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Era il 1967, nasceva il Movimento Tropicalista. Tra i suoi mentori e precursori, nel cinema Glauber Rocha, poeta del sertão e principale portavoce del Cinema Novo, capace di influenzare perfino Truffaut e Godard; nelle arti Hélio Oiticica e Lygia Clark, profeti del work in progress artistico, l’opera d’arte in perenne trasformazione che per completarsi necessita dell’intervento dello spettatore; nell’architettura Lina Bo Bardi, fautrice della semplicità costruttiva attraverso l’uso della sapienza popolare. Tra i massimi esponenti del Tropicalismo ne scelgo due: Caetano Veloso e Gilberto Gil. Il disco di rifermento, ritenuto dalla rivista Rolling Stone tra i più importanti di tutti i tempi, Tropicália. Poco tempo prima Caetano Veloso si fece conoscere con una canzone simbolo di quei tempi, in cui affermava: “senza soldi, senza documenti, io vado, perché no?”

E contemporaneamente, nell’ambio dello stesso festival, Gilberto Gil ritrattava la triste fine in un bagno di sangue di un triangolo amoroso.

La melodia, tra il baião e il rock, l’arrangiamento orchestrale, la presenza sul palco del complesso rock Os Mutantes… tutto contribuiva a formare il clima di geléia geral, marmellata generale, slogan e bandiera fondamentale del movimento tropicalista: nuova affermazione culturale delle zone torride dove l’elemento del piacere suole essere più intenso, più diretto che nel settentrione, perché sotto il sole il corpo diventa protagonista, gioca un doppio ruolo, come corpo e come astrazione del corpo stesso, nella celebrazione rituale, nel momento dionisiaco in un gioco di creazione e di sgretolamento, la maschera che si trasforma in nudità assoluta, in un perenne stato di tensione e catarsi in cui non è più necessario cercare il volto, l’immagine dell’altro, perché tutti noi siamo il volto, tutti noi siamo l’altro. 

Nella terra tropicale, tutto è in eccesso, animali dall’andatura voluttuosa, fiumi profumati, nuvole di uccelli colorati: l’uomo è nato per contemplare la bellezza, l’infinita varietà di orchidee e uccelli, la libertà delle acque, il silenzio dei grandi spazi, e solamente questo potrà redimerlo di tutte le sue sofferenze. Il Tropicalismo, negazione della negazione, inverso del rovescio, rivoluzione della rivoluzione stessa, proibizione di ogni proibizione, fu di tale portata da coinvolgere la nazione intera, i movimenti popolari, il governo, il potere, la giunta militare. 

Durò poco, lo spazio di una folgorante stagione in cui il Tropicalismo musicale ebbe il tempo per canzoni come questa Viva a Bossa, viva a Palhoça, viva a Mata via a Mulata (viva la bossa, viva la capanna di paglia, viva la foresta, viva la mulatta)! Il maestro Giulio Medaglia, resposabile per molti arrangiamenti e per la direzione di orchestra, anni dopo rinnegò gli antichi compagni, accusandoli di pigrizia e indolenza! “Guardate Frank Zappa che incide dieci dischi all’anno e voi lì, sdraiti al caldo di Salvador”. Il tropicalismo moriva così, affogato dalla sua propria bellezza. Tra le sue voci femminili, le due più belle: Gal Costa, dall’intonazione assoluta, musa ispiratrice e interprete raffinata fino ad oggi ritenuta tra le maggiori cantanti della nostra musica.

Maria Betania, sorella di Caetano Veloso, tra i tanti meriti che ha, ne scelgo uno: non la si vede mai alla tv. Sceglie il repertorio tra i classici e le novità genuinamente nostrane; la voce calda, roca, intensa; i suoi spettacoli intesi, non come un sfilata di successi ma come una galleria di arte in cui ogni canzone è legata alla successiva attraverso una poesia di un autore consacrato o di un giovane sconosciuto.

Qui la ascoltiamo giovanissima, diciassette anni, durante lo spettacolo teatrale Opinião, Opinione, (in piena dittatura militare!) in cui si affermava il diritto alla vita, perfino del carcará, l’uccello rapace del sertão que pega, mata e come, prende uccide e mangia in una affermazione “tropicalismo etico” due anni prima della sua nsciata ufficiale. Una sorta di allegoria dell’uomo del nord est, costretto a emigrare a causa della fame e dell’abbandono. Maria Bethania, diciassette anni…

Poi un giorno successe qualcosa.

I link aprono video youtube.

Paolo D'Aprile

Paolo D'Aprile

Libero pensatore, ha scritto sia per Macondo che per Pressenza. Vive a São Paulo do Brasil.