Gli orizzonti di una cultura antirazzista
Le nuove immigrazioni: una storia recente
Nell’arco di pochi anni il nostro paese è stato interessato da un notevole flusso immigratorio.
Questo
fenomeno, che comincia oggi ad essere diffusamente studiato, ha
provocato una serie crescente e variegata di reazioni da parte
dell’opinione pubblica, dei mass media e delle forze sociali.
In
molti paesi industrializzati dell’Europa occidentale (Francia, Belgio,
Germania, Olanda, Gran Bretagna) le immigrazioni dai paesi del sud del
mondo avevano rappresentato un fenomeno rilevante già a partire dagli
anni ’60, acquistando in breve tempo un carattere strutturale.
Sotto
questo aspetto città come Londra, Parigi, Amburgo o Amsterdam sono già
da anni, di fatto, metropoli a carattere multietnico e multiculturale.
In
Italia il fenomeno è cominciato “in punta di piedi” e, fino a circa la
fine degli anni ’70, è risultato quantitativamente molto ridotto e
geograficamente assai circoscritto.
Le cause di questa scarsa attrattività del nostro paese erano dovute principalmente:
1.
alla scarsità di contatti consolidati e stabili con i paesi del sud del
mondo (contatti invece tipici di paesi con intensa storia coloniale
come Francia e Gran Bretagna);
2. ad una forte tradizione emigratoria, caratteristica di un paese debole dal punto di vista economico-sociale.
Il
cambiamento dell’assetto economico-sociale (crescita economica, maggior
benessere, riduzione drastica del flusso emigratorio) unitamente ad una
tendenza mondiale di impoverimento progressivo dei paesi del sud del
mondo (esplosione demografica, elevato debito estero, crisi economiche,
instabilità politica, ecc.) hanno trasformato l’Italia, nell’arco di
poco tempo, in una nuova meta di migrazione.
Per la grande
maggioranza degli Italiani, quindi, a differenza dei cittadini dei
grandi paesi europei, gli stranieri, come gruppo sociale, non sono
letteralmente esistiti fino alla fine degli anni ’80, se non all’estero.
Nel
giro di una manciata di anni praticamente tutte le grandi e medie città
del nostro paese hanno conosciuto un rapido fenomeno immigratorio, in
particolare dai paesi del Nord Africa.
L’emersione del problema razziale
In questo quadro, l’assassinio di un giovane lavoratore africano, Jerry
Masslo, a Villa Literno nell’estate del 1989, rappresenta l’evento shock
che catapulta alla ribalta il “problema immigrazione” e la minaccia del
razzismo.
A partire da quell’evento tragico il problema dell’impatto
sociale del fenomeno si alza di tono e diventa un problema politico
nazionale.
La visione bonaria e sempliciotta (se non ipocrita) di un
paese sostanzialmente tollerante ed ospitale si è sgretolata di fronte
al crescere turbinoso di episodi di intolleranza razziale ed al
diffondersi di prese di posizione di marca schiettamente razzista.
Come
per tutti i paesi industrializzati dell’occidente anche per l’Italia è
cominciata una nuova scommessa sociale e politica: la costruzione di una
società aperta e tollerante, multietnica e multiculturale, in un quadro
di rapporti internazionali in cui l’elemento dei flussi migratori dal
sud del mondo costituisce non un problema transitorio e temporaneo ma un
fenomeno semistrutturale e, a medio termine, in via di espansione.
Il razzismo: un fenomeno a strati
Nell’arco di questi ultimi cinque-sei anni abbiamo assistito ad un
crescente organizzarsi di gruppi e movimenti schierati su posizioni
opposte rispetto al problema. Molte organizzazioni hanno inaugurato un
impegno nel campo della lotta al razzismo (Diversi ma insieme, STOP
razzismo, SOS Razzismo, Nero e non solo) promuovendo manifestazioni di
protesta e attività di sensibilizzazione. Analizzando con una certa
attenzione questo fenomeno ci pare però di dover evidenziare un
problema: la scarsità e la fragilità delle metodologie di lotta al
razzismo. Ci pare cioè che prevalga la tendenza ad affrontare il
problema affidandosi soprattutto agli strumenti della ideologia e della
morale, sicuramente importanti ma non sempre sufficienti a produrre
cambiamenti. Sono estremamente ridotte le ricerche e le sperimentazioni
sul come fare a diffondere una cultura della tolleranza e sul come
cambiare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone in relazione
all’altro, in rapporto al diverso. A questo proposito sarebbe utile fare
riferimento alle esperienze di paesi che da lungo tempo hanno
conosciuto il fenomeno migratorio e le connesse difficoltà di costruire
una socialità caratterizzata dalla presenza di multirazzialità e
multiculturalità.
Ed a questo proposito i risultati non sono,
purtroppo, molto confortanti; soprattutto nei due paesi occidentali dove
è più presente una diffusa multirazzialità: gli Stati Uniti e il
Brasile. Ma anche le esperienze di paesi europei quali Gran Bretagna,
Francia e Germania non appaiono molto incoraggianti. Ovunque vogliamo lo
sguardo i rapporti fra etnie appaiono tesi, con segnali inquietanti del
diffondersi di comportamenti di intolleranza se non di evidente
razzismo. Ma cosa intendiamo per razzismo? Facciamo un passo indietro e
tentiamo di mettere a fuoco alcuni concetti prima di procedere.
Possiamo distinguere due aspetti del fenomeno razzismo:
1.
un aspetto oggettivo: cioè le disuguaglianze concrete nella qualità
della vita delle persone appartenenti ad un determinato gruppo razziale;
2. un aspetto soggettivo: cioè l’insieme degli atteggiamenti delle persone nei confronti di un determinato gruppo razziale.
Il razzismo oggettivo
Nell’ambito dell’aspetto oggettivo del problema agiscono,
prevalentemente, meccanismi che potremmo definire istituzionali, che
decretano cioè in maniera formale (con leggi, norme, regolamenti, ecc.)
una serie di vantaggi e di privilegi di un gruppo sociale (etnico,
razziale, religioso o altro) rispetto ad un altro o ad altri.
Le
cosiddette leggi sull’apartheid della Repubblica Sudafricana hanno
rappresentato a questo proposito un esempio emblematico, ancora non del
tutto superato. In questo ambito valgono prevalentemente approcci di
tipo politico-giuridico. Combattere il razzismo significa, da questo
punto di vista, varare leggi che da un lato stigmatizzano i
comportamenti razzisti e dall’altro contribuiscono a diminuire gli
ostacoli formali per il godimento di uguali diritti (pari opportunità).
Questo primo aspetto coinvolge quindi prevalentemente la Giurisprudenza e
la Politica. Risulta quindi centrale il ruolo che possono esercitare le
Istituzioni democratiche, i partiti politici, la Magistratura nonché
l’influenza di forze sociali (sindacati, movimenti, associazioni)
rispetto alla promulgazione di leggi severe contro il razzismo in ogni
sua manifestazione.
Il razzismo soggettivo
Il secondo aspetto riguarda invece gli atteggiamenti delle persone. E
qui il problema diventa scottante. Sappiamo infatti che nonostante le
leggi di un paese possano essere particolarmente severe (e lo devono
essere) nello stigmatizzare e nel punire determinati comportamenti
possono, nel contempo, risultare inefficaci rispetto agli atteggiamenti,
i modi di pensare, gli stereotipi, gli stili di rapporto e i sistemi di
valore di individui, gruppi o comunità. In altre parole, si può vietare
il comportamento razzista esplicito (agito, dichiarato e organizzato)
ma non prescrivere la solidarietà, la tolleranza e la disponibilità.
Non
solo. L’assenza di comportamenti razzisti non denota l’assenza di idee o
valori razzisti. Sovente è attraverso il velato ed ambiguo piano degli
atteggiamenti che viene comunicato il pregiudizio razziale.
Questo è
l’aspetto del problema che più coinvolge chi è interessato a promuovere
una cultura di comunicazione, tolleranza e scambio fra culture e razze
diverse.
La necessità di una cultura antirazzista
Da questa angolatura molte organizzazioni sociali, gruppi e associazioni
di base sono impegnati in campagne di lotta al razzismo e di promozione
di valori solidaristici. Questo è un dato sicuramente di grande
importanza, che testimonia l’impegno e la passione di molte persone.
In
questa sede vorremmo tentare però di esprimere alcuni dubbi, a voce
alta, per confrontarci. Ci pare che la larga parte di questi interventi
sia caratterizzata da un forte spessore ideale, valoriale ed etico. Ci
pare inoltre che gli strumenti privilegiati, anche se diversificati,
siano riconducibili prevalentemente ad una strategia informativa: si
dice, si scrive, si dichiara, si propone, si sostiene che determinati
valori, ideali o proposte sono giusti, corretti, positivi.
L’aspettativa,
più o meno esplicita, sembrerebbe essere che le persone destinatarie di
questa informazione possano condividere quei valori, fare propri quegli
ideali o adottare quei propositi. Diamo per scontato (e lo è
autenticamente) che questi interventi siano lodevoli e condivisibili.
Poniamoci un’altra domanda, più prosaica se volete, ma oramai
inevitabile: funzionano? Quanto incidono sui sistemi di valore delle
persone? Quanto mutano gli atteggiamenti quotidiani delle persone nei
confronti del diverso? (del nero, dell’arabo, del cinese,
dell’ebreo…)? Quanto rendono sensibile al problema chi in precedenza
era indifferente? Quanto rendono tollerante un quartiere che si era
dimostrato chiuso ed ostile?
In realtà non lo sappiamo. Purtroppo.
Anche
dando per scontato che le iniziative antirazziste e di solidarietà
siano giuste (per chi ne condivide le premesse valoriali) non ne deriva,
però, che siano ugualmente efficaci. Non si tratta di mancanza di
volontà o di superficialità da parte di chi le organizza.
La stessa
letteratura scientifica (in prevalenza studi di psicologia sociale)
denota, su questi temi, una evidente carenza di ricerche e di sistemi di
controllo dei risultati.
Dal punto di vista dell’azione sociale, la
cultura dell’antirazzismo e della solidarietà “naviga a vista”, in un
mare che pare sempre più in tempesta. I successi elettorali delle varie
destre, i comitati spontanei di cittadini contro insediamenti di
extracomunitari, gli episodi piccoli e grandi di discriminazione
razziale segnalano in maniera piuttosto chiara la difficoltà (se non il
rifiuto) di relazione fra italiani ed extracomunitari da parte di
discreti settori della società italiana.
A questo punto diviene
opportuno rivolgere lo sguardo verso quei paesi che da molto più tempo
del nostro conoscono le difficoltà connesse alla costruzione di una
società multirazziale. Negli Stati Uniti, ad esempio, molti governi
statali avevano investito ingenti somme di denaro (in particolare negli
anni ’70) in progetti finalizzati alla integrazione scolastica degli
adolescenti di origine afroamericana o ispanica. Si è trattato di
progetti seri, di lungo respiro e di alto livello professionale. I
risultati sono stati però, nella larga maggioranza dei casi,
sconfortanti. A fronte di un impegno così massiccio, i cambiamenti di
pregiudizi e di atteggiamenti intolleranti nei confronti dei coetanei di
razza diversa si sono rivelati quantitativamente ridotti e
qualitativamente instabili. Aldilà delle lodevoli intenzioni le azioni
si sono dimostrate, un’altra volta, inefficaci.
I contributi più
interessanti a questo proposito sono venuti dagli studi in campo
psicologico rispetto al cambiamento di atteggiamenti e dagli interventi
che possiamo definire di Sviluppo di Comunità.
Appunti per una cultura antirazzista
Anche se non è negli obiettivi di questo scritto, vorremmo tentare di
suggerire alcune piste di lavoro che, partendo dagli studi e dalle
esperienze testé citate, possono contribuire a costruire una cultura
antirazzista che sia, nel contempo, eticamente solida e
metodologicamente efficace.
Una cultura antirazzista si deve
necessariamente agganciare ad un quadro legislativo che sancisca, in
maniera chiara ed indubitabile, la punibilità di tutti i comportamenti
di discriminazione. Si connota in tal modo il razzismo come un insieme
di comportamenti socialmente non accettabili: quindi leggi forti e
punitive nei confronti del razzismo esplicito.
L’altra potente
funzione istituzionale assunta dalle leggi è di tipo promozionale, per
la tutela dei diritti di cittadinanza, di alloggio, di studio e di
lavoro.
é di grande importanza che la cultura antirazzista sia
legittimata dall’alto, che sia cioè sancita in maniera chiara e promossa
dalle massime autorità di uno Stato e che riceva una massiccia
legittimazione nella società civile. é in funzione di questi obiettivi
che risultano altamente auspicabili le pressioni politiche esercitate
dai partiti democratici, dalle organizzazioni sindacali e dai movimenti
del volontariato organizzato.
Lo smascheramento e la promozione sociale
Uno degli elementi critici del razzismo è rintracciabile negli
atteggiamenti di banalizzazione del fenomeno da parte di alcuni settori
della società contemporanea.
Altra posizione, molto più pericolosa, è
la mimetizzazione di sentimenti razzisti sotto lo strato superficiale
di dichiarazioni antirazziste. é il cosiddetto razzismo
differenzialista, come lo ha efficacemente definito il filosofo
Pierre-André Taguieff, analizzando le presunte teorie antirazziste della
nuova destra francese.
Si tratta di un’analisi estensibile quasi
completamente alla situazione italiana. A questo proposito il rischio
maggiore è rappresentato dal crearsi di una sorta di marmellata
ideologica, che mischia e massifica i comportamenti razzisti,
giustificandoli e dissimulandoli.
Diventa quindi della massima
importanza svelare, chiarire, precisare, distinguere. Ci sono persone
che dichiarano di non essere razzisti ma hanno comportamenti razzisti.
Ci sono gruppi che annacquano una ideologia spiccatamente
discriminatoria con vaghe e retoriche affermazioni solidaristiche. In
questo senso le differenze ci sono ed è importante che emergano per
potersi almeno confrontare.
Diventa quindi di fondamentale importanza
informare su ciò che accade, su ciò che viene fatto. Il razzismo si
nutre di omertà e mistificazioni e va combattuto smascherandone il gioco
perverso. é quindi utile che il discorso antirazzista esca dalla
generosità e assuma confini precisi. Non la lotta ad un generico quanto
nebuloso fenomeno razzista ma a quell’insieme di episodi concreti,
compiuti da persone precise (o gruppi, o partiti, o istituzioni) in
determinati contesti (quel quartiere, quella scuola, quella fabbrica,
quel supermercato, ecc.).
L’asse strategico potremmo definirlo
promozionale. Per sedimentare una cultura antirazzista, oltreché
denunciare il negativo assume enorme rilevanza, soprattutto oggi,
promuovere il positivo. In altre parole far conoscere eventi,
situazioni, iniziative, esperienze, organizzate da gruppi o comunità
appartenenti alle più diverse minoranze etniche di un dato territorio.
Provocare occasioni di incontro che mettano in luce la bellezza, la
fantasia, la ricchezza, la curiosità di altre culture, di altre etnie.
Le dimensioni della festa e del divertimento contribuiscono inoltre ad
avvicinare le persone in maniera più informale e più dolce.
Una
cultura antirazzista si nutre di contatto e di vicinanza. Non è detto
che il contatto sia facile, o sicuramente positivo. Tutt’altro. Il
contatto fra diversi è sovente difficile, ruvido. A volte però è l’unico
modo che consente alle persone di scoprire aspetti inaspettati che
contribuiscono a rivedere i pregiudizi. A volte i pregiudizi vengono
confermati e possono nascere conflitti. A volte si tratta, come
confermano molte ricerche psicosociali, di attraversare un conflitto per
produrre consenso.
Da questo punto di vista la cultura antirazzista
non è a-conflittuale. Anche perché è già dichiaratamente in conflitto:
perlomeno contro il razzismo. La sua capacità diviene quindi quella di
saper gestire conflitti, in una prospettiva collaborativa.
Lavorare su problemi comuni e vicini
Il razzismo si presenta sempre di più come un “fenomeno sociale totale”,
come lo definisce il sociologo Balibar. Un fenomeno cioè fortemente
agganciato alla profonda disuguaglianza dei rapporti tra Nord e Sud del
mondo.
Affinché la cultura antirazzista non naufraghi in un generico
appello retorico è quindi indispensabile che si cali in contesti
operativi concreti. Nel nostro paese la scommessa dei prossimi anni sarà
probabilmente quella di lavorare su problemi comuni sentiti da persone
concrete, diverse per razza e cultura di origine, ma che vivono in uno
stesso contesto sociale (la stessa città, lo stesso quartiere, il
medesimo condominio).
La grande sfida è quindi quella di come
promuovere la collaborazione di persone e gruppi diversi, a partire da
problemi o desideri comuni (l’asilo per i bambini, la manutenzione di
una strada, più mezzi pubblici…) nella ricerca di soluzioni condivise.
L’esperienza di successo nella risoluzione collaborativa di problemi
sentiti dalle persone è, in molti di questi casi, una delle più potenti
azioni socioculturali antirazziste.
Stimolare e supportare il
moltiplicarsi di esperienze di soluzione comune di problemi quotidiani
crediamo significhi contribuire a costruire, nei fatti, forme di
socialità multietnica e di solidarietà antirazzista.